Essere anti establishment è così facile che ci prova anche Hillary
New York. Establishment è la parola sovrana, la categoria dirimente di queste elezioni. L’universo politico si divide fra establishment e antiestablishment, e il gioco dei candidati, non particolarmente difficile da svelare, consiste nell’essere generati e legittimati dal primo e manifestare totale fedeltà al secondo. Così Donald Trump, che con i suoi palazzi, le sue stravaganze, la sua ricchezza favolosa di rampollo del real estate con le credenziali dell’Ivy League e tutte le amicizie del caso, è riuscito a forza di smargiassate a spacciarsi come critico in chief dell’ordine politico costituito e dei suoi rituali. A ben vedere – lo ha notato Jonathan Chait sul settimanale New York – non è che Trump prometta il rovesciamento totale delle strutture di potere, né un taglio netto della stato federale: “Trump non dà voce al ritornello conservatore secondo cui lo stato sta fallendo perché così non funziona, e la soluzione è ridurlo. Invece, dice sta fallendo perché p guidato da idioti, e la soluzione è che sia lui a guidarlo”.
Nella notte dell’antiestablishment tutte le vacche sono nere, ma basta un minimo di penombra per notare che Trump critica i piloti del paese, non il motore. Eppure l’ossessione del candidato antisistema ha investito tutto e tutti, è la lente attraverso cui si osserva l’intera corsa verso la Casa Bianca, e giovedì sera nel dibattito fra Hillary Clinton e Bernie Sanders la dinamica è arrivata al parossismo. E’ stato quando Hillary ha cercato di sostenere di non essere la candidata dell’establishment, e lo ha fatto giocando la carta del genere: “Sanders è la sola persona qui che caratterizzerebbe me, una donna che corre per la presidenza, come un esempio dell’establishment”. In altre parole: il fatto che sono la prima donna che corre per la presidenza fa di me una candidata alternativa. E tutti a chiedersi in quale categoria cadono Margaret Thatcher, Elisabetta I d’Inghilterra o Matilde di Canossa. Sanders, che probabilmente non è la sola persona che avrebbe associato Hillary a una macchina di potere, ci è rimasto un po’ così. Specialmente perché l’avversaria aveva appena finito di snocciolare una selezionata lista di endorsement che dimostrano come il partito democratico la vuole alla presidenza, i diplomatici la vogliono alla presidenza, gli esperti indipendenti la vogliono alla presidenza. Alla fine della serata ha detto che pure Kissinger le ha fatto i complimenti per come ha gestito il dipartimento di stato, uscita che forse non gli era stata suggerita dai suoi consiglieri, e che certo non depone a favore della storia della donna coraggiosa che abbatte con le sue sole forze un potere vasto e maschio. Per rimarcare che Hillary è tutto il contrario dell’establishment, la senatrice Claire McClaskill ha detto ieri che “degli oltre duecento membri democratici del Congresso credo che soltanto due abbiano appoggiato Sanders”. FiveThirtyEight, il sito di previsioni elettorali di Nate Silver, ha un coefficiente per calcolare il peso degli endorsement. Il punteggio di Hillary è 466. Il secondo classificato, Marco Rubio, è a 60.
[**Video_box_2**]Hillary ha raccolto fin qui 150 milioni di dollari, e fra le questioni più complicate da giustificare ci sono i suoi legami con Wall Street, facilmente visibili scrutando la lista dei finanziatori, e che hanno prodotto anche la vexata quaestio dei 675 mila dollari ricevuti da Goldman Sachs come onorario per alcuni discorsi. Sarà che l’establishment gioca a fare l’antiestablishment, ma forse l’idea della candidata alternativa – e alternativa in quanto donna – non è proprio la tazza di tè di Hillary. Non c’è bisogno di abbracciare le critiche di Camille Paglia – in sintesi: deve tutto al marito, altro che potere femminile – per roteare gli occhi di fronte a una giravolta fatta per compiacere lo spirito del tempo. Il Washington Post ha sintetizzato tutto in due parole: “Come on”.