I visti impossibili per l'Ue e le tante ipocrisie sui migranti

Anna Zafesova
Piccoli dettagli sulle possibilità d’ingresso in Europa (e negli Stati Uniti), tra sensi di colpa e coperte termiche

Milano. Nel dibattito sugli immigrati uno degli argomenti morali è “non possiamo vederli affogare in mare”. Pochi però si chiedono perché uomini, donne e bambini si stipano su barconi e gommoni anche per traversate che si possono compiere con un aereo di linea, comodamente, senza dover rischiare la vita e pagando dieci volte meno. La risposta è semplice: non possono avere un visto per l’Europa. Chi non ha abitato fuori dall’Ue, abituata già molto prima di Schengen a confini senza visti, timbri e passaporti, non ha idea di quanto sia difficile per un extracomunitario sbarcare nel Vecchio continente. Le code nei consolati sono lunghe quanto la lista dei documenti da presentare anche solo per un visto turistico. Estratti conto, certificati del datore di lavoro, dichiarazioni di stato di famiglia, dei redditi, fedine penali, e poi la prenotazione dell’albergo con pagamento anticipato, il biglietto andata e ritorno, l’assicurazione medica e i contanti sufficienti per tutta la durata del soggiorno. Se invece di essere turisti si viene invitati, si aggiungono documenti del cittadino o dell’ente ospitante (con l’impegno ad assumersi tutte le spese, incluso il rimpatrio), e corrispondenza personale, in base alla quale i funzionari stabiliranno se il legame con chi vi invita è sufficientemente profondo da giustificare il viaggio.

 

Viaggiare in Europa è una faccenda da ricchi e ben piazzati. Tutti gli altri si presentano ai consolati in una condizione di presunta colpevolezza di volersi intrufolare nel paradiso Ue, e l’onere della prova è a carico del richiedente. In queste pagine si è parlato del “modello americano” dell’immigrazione. I consolati Usa sono famosi per l’irriverenza con la quale interrogano i richiedenti e li respingono sulla base del sospetto che in realtà vogliano restare in America. Ma in questo caso restituiscono il plico con la frase “deve fare richiesta di immigrazione”. Un altro sportello, una trafila ancora più lunga, ma si può tentare. Si può addirittura scommettere di vincere una green card alla lotteria. La maggior parte dei paesi europei non offre questa opzione. Si può entrare come turisti (studenti, imprenditori, ricercatori, ecc.) offrendo garanzie di denaro o facendosi garantire da qualcuno. Si può avere un visto di lavoro, se si trova un datore di lavoro disposto ad assumersi costi e burocrazia. Può funzionare per un professore universitario, ma è difficile per un aspirante imbianchino. La soluzione più ovvia è entrare con un visto turistico, restare come clandestini, cercarsi un lavoro in nero e poi emergere in qualche modo. E’ il percorso seguito dalla maggioranza degli immigrati in Italia. Ma ci sono popoli per i quali un visto turistico è quasi impossibile da ottenere. E non resta che il barcone.

 

Vista da fuori, l’Europa è un fortino che non vuole intrusi. Si commuove per la foto del piccolo Aylan, ma non si chiede perché ha dovuto morire affogato quando in un mondo normale ai suoi genitori sarebbe bastato comprare un biglietto e atterrare a Roma, Vienna o Parigi con un visto turistico, o anche senza, considerando che ormai le fiumane di migranti arrivano spesso sprovvisti anche dei documenti d’identità. E poi andare a cercarsi un lavoro, chiedere asilo, rifugiarsi in una struttura della Croce Rossa, insomma, provare a sopravvivere. Come hanno fatto gli immigrati da sempre, come facevano italiani, irlandesi e polacchi quando sbarcavano a Ellis Island, come fanno tuttora gli immigrati negli Usa e in altri paesi dove l’accoglienza statale è inesistente. Creano problemi di ordine pubblico, competono per i posti di lavoro, fanno nascere mini scontri di civiltà, ma almeno nessuno li accusa di pesare sulle spalle della comunità, e nessuno gli sequestra i gioielli per pagargli i container e i pasti in mensa.

 

L’immigrato piace se è disperato

 

Che l’Ue non sia in grado di curare, assistere e istruire milioni di extracomunitari al pari dei propri cittadini non è una scoperta di ieri. L’ipocrisia è non ammetterlo. Negli Usa un immigrato (ma anche un americano) non può avere cure mediche senza un’assicurazione, e finire sotto i ponti è un’opzione possibile per tutti. In Europa si dice che non possiamo tollerare che gli immigrati siano cittadini di serie B, che non hanno le stesse scuole e gli stessi ospedali. Ma siccome non possiamo pagarglieli, possiamo tollerare che marciscano nei loro paesi, dove non li vediamo. E quando l’occhio non vede il cuore non duole. Gli Aylan là fuori possono morire di guerre e fame, ma non avranno i requisiti per entrare in un consolato europeo e chiedere un visto.

 

[**Video_box_2**]Devono salire sul barcone e rischiare di morire. Devono commuovere. Facendo infuriare – e di nuovo lo si vede solo guardando l’Europa dal mondo “extracomunitario” – i loro compagni di sventura. Quelli che sono arrivati più o meno legalmente e si sono rifatti una vita. I commercianti cinesi, le colf filippine, gli imbianchini romeni, i fattorini peruviani, le badanti ucraine. Quelli che non hanno chiesto aiuto, anche perché nessuno glielo avrebbe dato. Quelli che spesso apprezzano i benefici dell’Europa più dei suoi cittadini, anche perché sanno con cosa confrontarla. Ma anche quelli che nell’Ue ci vengono solo in vacanza, come i russi e i cinesi ricchi che per spendere qualche migliaio di euro tra Forte dei Marmi e via Montenapoleone devono subire l’interrogatorio sui loro redditi nei consolati e sentirsi sbuffare alle spalle da commercianti e albergatori, per poi vedere le frontiere che si aprono per gente che per l’Ue sarà solo un costo. Alle anime belle europee l’immigrato piace se è miserabile e disperato, se fa sentire buoni, non se è ambizioso e pronto alla fatica. Nell’America del “liberismo selvaggio” dove l’accoglienza statale è sconosciuta, il figlio di un immigrato può vincere l’Oscar o fondare la Apple, diventare segretario di stato o addirittura presidente. In Europa nel migliore dei casi è una vittima, un complesso di colpa vivente, da alleviare con una coperta termica e un buono pasto.