L'argine giordano
“Uneasy lies the head that wears a crown”.
Henry IV, William Shakespeare
Abdallah bin al Hussein ha cinque anni quando scopre che cos’è la guerra: un rimbombo lontano seguito da uno scoppio più forte, coperto dal rumore di un altro e poi di un altro ancora. Corre in corridoio e si mette a guardar fuori con un telescopio: il cielo è striato da colonne di fumo nero. E’ il 1967, jet israeliani stanno attaccando fedayeen palestinesi vicino alla città di Salt, ma lui non lo sa. E’ ancora incollato alla finestra quando il padre sottrae il telescopio ai suoi occhi azzurri, tenta di aggiustare la mira e, accortosi di avere in mano un giocattolo, lo scaraventa per terra.
E’ uno dei primi ricordi di Abdallah II di Giordania, giorni di guerra che vive senza paura: lo zio Muhammed, responsabile della sicurezza, che dorme, con un fucile accanto, dentro un sacco a pelo nel seminterrato, le taniche d’olio per lubrificare le armi trascinate con il fratello Feisal e le loro foto, con una sigaretta all’angolo della bocca ciascuno, che fanno inorridire sua madre e allentano, tutto a un tratto, la familiarità con le guardie del corpo.
L’età dell’innocenza per Abdallah finisce un anno dopo: la Guerra dei Sei Giorni si è conclusa disastrosamente con la perdita della Cisgiordania e di Gerusalemme e una seconda ondata di rifugiati palestinesi, dopo quella del 1948, si è riversata nel paese. Nel 1968 Amman è una città pericolosa, crocevia di terroristi – da Carlos, ai giapponesi dell’Armata Rossa, ai tedeschi della Baader Meinhof – spie e guerriglieri che vogliono creare uno stato nello stato. I fedayeen di Arafat creano posti di blocco, assaltano case, alberghi e automobili, organizzano sequestri. Tentano almeno due volte di assassinare suo padre e sua madre, che è un’ottima tiratrice, non esce di casa senza una colt nascosta in una scatola per guanti. Le tensioni tra re Hussein e l’Olp deflagreranno irrimediabilmente nel Settembre Nero del 1970, ma Abdallah a quel punto è già in un collegio nel Surrey da due anni.
“Nella mia regione, nel bene e nel male, viviamo la storia – ha raccontato nel 2011 il sovrano hashemita in un libro di memorie intitolato “Our last best chance” - quello che ad altri appare remoto e intangibile è il nostro quotidiano”. Ma se in medio oriente è difficile sfuggire alla storia, il destino della Giordania è tutto nella geografia: schiacciata tra stati più grandi e più forti e senza l’atout di risorse energetiche, resiste perché i suoi re hanno fatto di questa condanna una strategia, assorbendo gli choc regionali e interpretando il ruolo di mediatori.
La nazione che Winston Churchill si vantava di aver creato con un tratto di penna per premiare gli eredi dello Sharif della Mecca e assicurarsi una zona di transito tra la Palestina e l’Iraq è diventata molto di più: un cuscinetto tra Israele e i suoi avversari, un baluardo all’avanzata dello Stato islamico, il confine tra l’ordine e il caos. Washington guarda ad Amman come alla capitale di uno stato troppo strategico per cadere e la benevolenza degli americani è facilitata dal fatto che gli hashemiti, da Hussein ad Abdallah, non sono né satrapi dissoluti né dittatori senza contatto con la realtà, ma leader “moderati”, e a nessuno in medio oriente questa abusata etichetta calza meglio che a loro.
Quando nel 1999, dopo 46 anni di regno, muore re Hussein, tutti gli occhi si posano su Abdallah. E’ il figlio primogenito ma è poco conosciuto dalle cancellerie internazionali perché per più di quarant’anni e, fino a due settimane prima, il ruolo di erede designato della dinastia è stato ricoperto da suo zio, il principe Hassan. Sul New York Times sono filtrate voci di intrighi e tradimenti, ma le indiscrezioni si concentravano sulla presunta faida tra la regina Noor e la cognata Sarvath e non lambivano tanto Abdallah, quanto il fratello minore Hamzah, spesso descritto come il figlio prediletto del re.
Il giorno del funerale scende una pioggia leggera, centinaia di migliaia di giordani riempiono le strade, il feretro avanza seguito da un cavallo bianco che non sarà mai più cavalcato e il nuovo re che accoglie i rappresentanti di 75 paesi nel palazzo di Raghadan è un enigma per molti. “Non ero mai stato più triste, non mi ero mai sentito più solo – racconta – I giordani non amano vedere uomini adulti che piangono e il mio volto era una maschera”. Abdallah saluta Hosni Mubarak, Hafez al Assad, Yasser Arafat, gli allora principi ereditari dell’Arabia Saudita e del Marocco, Abdallah e Mohammed, Bill Clinton accompagnato da George Bush senior e Jimmy Carter, Boris Yeltsin, Tony Blair con il principe Carlo, ma anche Benjamin Netanyahu e Khaled Meshaal, che il Mossad ha tentato di uccidere solo un anno e mezzo prima proprio ad Amman.
Lo stesso giorno Abdallah va in Parlamento a giurare fedeltà alla Costituzione, per molti giordani Hussein è l’unico re che abbiano conosciuto e il nuovo sovrano ha chiesto al capo del protocollo di appendere nella sala un ritratto del suo predecessore, è un segno di devozione di un figlio verso un padre e anche un simbolo di continuità per una nazione. Anni dopo dirà alla corrispondente dell’Afp Randa Habib di non aver avuto il tempo di piangerlo e “di sentirsi spesso ancora di guardia al forte in attesa che torni”.
Di Abdallah allora si sa che è un ottimo militare – è il capo delle forze speciali – che ha una bella moglie palestinese e che sua madre, la discreta principessa Muna, nata Antoinette Avril Gardiner, è di origine inglese. Si sussurra che il suo arabo classico sia stentato e che non possieda il carisma del padre. Tutti lo abbracciano, ma “molti lupi – racconta – non attendono altro che inciampi”. E’ Clinton a offrirgli la prima mano tesa dichiarando di avere “molta fiducia” nel giovane re con cui stringe un rapporto di amicizia che durerà negli anni e garantirà ad Amman il sostegno della Clinton Global Initiative. Altri attestati di stima arrivano da Jacques Chirac e Tony Blair, ma il primo anno di regno di Abdallah è dedicato soprattutto a rafforzare le relazioni regionali. Da suo padre ha imparato che la Giordania non può permettersi lunghe inimicizie, deve tenersi stretti gli amici e ancora più stretti i nemici. Incontra Mubarak, re Fahd, Arafat, Hafez e Bashar el Assad, ma chi lo colpisce maggiormente per acume e saggezza è il Sultano Qaboos dell’Oman.
Farsi conoscere dai giordani è l’altro imperativo dei primi anni. Come suo padre, e diversamente da tanti altri leader mediorientali, Abdallah non sfugge al contatto con i sudditi. Viaggia da una parte all’altra del paese e prende l’abitudine di travestirsi per visitare ospedali e uffici comunali. Si maschera da solo variando ogni volta occhiali, copricapi, bende, bastoni, nasi e barbe finte. Controlla la lunghezza delle file, lo stato degli ascensori, l’atteggiamento dei funzionari e dei medici. “Sono diventato un po’ come Elvis, ci sono avvistamenti ovunque. I burocrati sono terrorizzati”, racconta a Jeffrey Golberg che lo intervista nel 2000 per il New York Times. Robert Satloff del Washington Institute for Neast East Policy scrive che questi exploit sono populismo allo stato puro e che non è né democratico né costruttivo che il re, di fatto, suggerisca ai giordani che non possono fare affidamento sulle istituzioni.
Abdallah incarica la società di consulenze Booz Allen Hamilton, specializzata in strategie internazionali, di formulare delle raccomandazioni per la Giordania. A palazzo, nel frattempo, irrompe un nuovo gruppo di consiglieri, hanno studiato ad Oxford, Harvard e Cambridge e sono reduci da prestigiose esperienze internazionali, intanto il primo ministro viene congedato e rimpiazzato e numerosi collaboratori di re Hussein sono allontanati perché – spiega a Habib – non può dare ordini “a persone che per riguardo dovrebbe chiamare zio”. Quanto allo zio vero, Hassan, Abdallah gli conferma affetto e rispetto, ma non ha remore a dire pubblicamente che non fa più parte del team esecutivo. “Nel vecchio sistema – dice al Nyt – Sua Maestà aveva una politica e poi il principe ereditario ne creava una sua. C’erano due capi e questo confondeva tutti”. Abdallah sa che per essere rispettato a corte e nel paese tutti devono sapere chi comanda, non c’è posto per le mezze misure e pazienza se questo offende le suscettibilità di alcuni. Dai suoi consiglieri, invece, esige chiarezza, ed è spesso impaziente perché vuole soluzioni rapide e risultati concreti. Quando gli chiedono entro quando va realizzato un progetto, la sua risposta standard è “ieri!”, è abituato alla vita nell’esercito e non si capacita quando le persone non marciano al ritmo giusto. A una conferenza organizzata per far dialogare rappresentati del settore pubblico e privato, minaccia di trattenere tutti a tempo indeterminato se non arriveranno a un accordo. Abdallah è determinato a sfruttare la reputazione di paese stabile della Giordania per attrarre investimenti internazionali. Partono le privatizzazioni che investono le telecomunicazioni, l’acqua, il cemento e i trasporti. Il mondo corre e la Giordania non può rimanere a guardare: “Noi potremmo essere un simbolo per qualcuno che sta seduto in Yemen e dice: non voglio che la mia nazione resti com’è. Io voglio seguire il modello giordano!”. Sogna un futuro in cui l’Europa li guarderà senza immaginare fanatici e kamikaze, ma startup multimiliardarie e premi Nobel per la letteratura, un Benelux mediorientale in cui si combinano “l’esperienza manageriale degli israeliani, il professionalismo dei giordani, lo spirito imprenditoriale dei libanesi e la cultura dei palestinesi”.
Abdallah seguita a ripetere che tutto è ancora possibile, “Our last best chance”, la nostra ultima migliore occasione, è il testamento politico dei suoi primi dieci anni di regno e lascia spiragli aperti all’ottimismo, ma anche lui ammette che le sue riforme fanno due passi avanti e uno indietro.
Intanto lo Yemen sanguina, l’orrore della guerra in Siria ha rovesciato sulla Giordania l’ennesima ondata di profughi e il “modello giordano” stenta a decollare. Abdallah continua a rappresentare il miglior leader mediorientale possibile in molte capitali occidentali – il candidato democratico alla presidenza Bernie Sanders lo ha recentemente citato in un dibattito come “il suo eroe” – ma tra il re trentottenne che prende le misure del suo ruolo e quello di sedici anni dopo la distanza è siderale.
“Non riusciamo a uscire dai vecchi schemi, negoziamo questioni che hanno una bassa priorità e rimandiamo le decisioni difficili”, scrive nelle sue memorie. “Ricadiamo di default nello status quo”. Abdallah si riferisce agli uomini che si oppongono al cambiamento la cosiddetta “vecchia guardia”, ma forse parla un po’ anche di se’. La frustrazione è evidente in un’intervista uscita sull’Atlantic nel 2013 in cui offre giudizi sferzanti su alcuni interlocutori regionali (del turco Recep Tayyip Erdogan dice che ha una natura autoritaria, vede la democrazia come “un giro in autobus” da cui scendere “alla fermata più opportuna”), sui servizi segreti che accusa di remargli contro e sui familiari (“Alcuni membri della mia famiglia non ci arrivano. Guarda i miei fratelli, pensano di essere principi, ma i miei cugini sono più principi dei miei fratelli. Più sei lontano dal trono e più diventi monarchico”). Ma ciò che stupisce più di tutto è sentirlo parlare degli esponenti di tribù transgiordane come di “dinosauri”. E’ grazie all’alleanza con le tribù transgiordane che Abdallah I, originario dell’Hejaz (nell’attuale Arabia Saudita), ha potuto assicurare un futuro alla sua dinastia. Lo sgarbo è parso strano, non tanto per la sostanza delle cose dette (le sue opinioni non sono un mistero), quanto per la forma di una goffaggine tanto spinta da apparire voluta.
Quando salì al trono Abdallah raccontò di essere stato preparato a quel ruolo dal padre che lo chiamava spesso a sé nei momenti importanti: è la guardia del corpo della regina Elisabetta durante una visita di stato e quella di suo padre mentre si consuma un incontro segreto con Rabin a Eilat. Abdallah “è lì come Forrest Gump”, in mezzo alla storia, ma mai in primo piano. Niente però può prepararti alla storia finché non tocca anche te.
All’inizio degli anni Sessanta, re Hussein pubblica un’autobiografia, “Uneasy Lies the Head”. Il titolo è ispirato all’Enrico IV di Shakesperare (“Scomoda giace la testa che indossa una corona”) e il libro si apre con il ricordo del 20 luglio del 1951, il giorno in cui suo nonno, Abdallah I, viene assassinato a Gerusalemme davanti alla moschea di al Aqsa, lui gli sta accanto, ha solo 15 anni ed è il momento in cui “da ragazzo diventa un uomo”. Per Abdallah l’apprendistato è più lungo, è già un padre quando promette fedeltà alla Giordania nel palazzo di Raghadan “catapultato in un ruolo cui non aveva mai aspirato”. Nella sfortunata intervista all’Atlantic confessa di aver accarezzato l’idea di mollare tutto e pensa con nostalgia alla sua ultima estate normale, quella del 1998 a Monterey, in California. “Avevamo affittato una casa piccola, lavavamo i nostri vestiti. Mia moglie preparava merende e guidavamo una macchina a noleggio. Era una vita normale. Oggi la mia vita non è più mia”. Ma la sua famiglia ha sostenuto sulla sue spalle il peso della leadership per 1400 anni (gli hashemiti sono annoverati come diretti discendenti di Maometto e sono stati custodi di Mecca e Medina fino al 1924), ha ricordato all’Atlantic, e non sarà lui a tirarsi indietro ora che è arrivato il suo turno.
[**Video_box_2**]Abdallah immaginava una carriera nell’esercito, anche sei in fondo nemmeno quella era stata una sua scelta. Era orientato a studiare legge e relazioni internazionali al suo ultimo anno di scuola. Suo padre l’ascoltò parlare dell’università di Dartomouth e poi gli chiese a bruciapelo: “Non hai mai pensato all’esercito?”, e non si trattava di un suggerimento come un altro.
Durante un’esercitazione nell’accademia militare di Sandhurst uno dei suoi comandanti, l’amato sergente filosofo Lawley, lo prende da parte e gli dice: “Signor Abdallah, c’è qualcosa che volevo dirle da tempo. Lei sarà sempre nella merda, sarà solo la profondità a variare”. Abdallah ha adottato quella frase come motto e ha raccontato di pensarci spesso nelle situazioni difficili. Deve averlo invocato spesso quel motto negli ultimi anni perché non c’è nessuna scuola che ti può insegnare a diventare un re e Abdallah lo sta facendo alla sua maniera. Gli imperativi della sicurezza hanno intaccato le sue credenziali libertarie, la democrazia tout court è diventata “la ricetta giordana per la democrazia”, la stampa denuncia ingerenze e un’esponente storica dell’opposizione, Touran Faisal, è stata condannata a 18 mesi (e perdonata dopo un mese) per aver “attaccato l’immagine della Giordania”. Eppure, anche se la corona è diventata pesante, e l’Economist King ha perso delle occasioni, quando invoca (in mimetica e minacciando l’Armageddon) la nostra comune umanità contro lo Stato islamico, quando si batte contro i delitti d’onore e ascolta la regina Rania che gli consiglia di offrire acqua e succo di frutta ai manifestanti in piazza contro di lui, Abdallah non è più Forrest Gump e nemmeno un eroe, ma un un re che rappresenta ancora una delle nostre speranze imperfette.