Bernie Sanders (foto LaPresse)

L'apocalisse di Bernie

I giovani tifosi di Sanders danzano sulle note della catastrofe. Nei loro sorrisi si legge: siamo spacciati

Dal nostro inviato a Manchester (New Hampshire). I ragazzi stanno con Bernie Sanders, non c’era bisogno di inseguire il candidato per le strade ghiacciate del New Hampshire per afferrare il concetto. Bernie scalda, entusiasma, esalta, lui è la rock star e loro i fan da prima fila. Con l’eccezione di Trump, gli altri candidati una carica popolare del genere l’hanno vista soltanto in televisione e Hillary Clinton ha pure esplicitato l’invidia. Il sondaggista Nate Silver ha spiegato questo amore travolgente con la forza persuasiva dei numeri, che legano a Bernie una generazione impoverita nel portafogli e nelle aspettative, gente che non ha l’età per ricordarsi di quanto la parola socialismo facesse paura in America. Molly Ball, cronista dell’Atlantic, lo ha raccontato sovrapponendo l’immagine di Sanders alla particolare sensibilità liberal che si è affermata nell’humus universitario: “Da anni un nuovo movimento di sinistra sta crescendo nei college. Parla il nuovo, radicale linguaggio all’intersezione fra varie identità politiche. E’ ossessionato dalla giustizia sociale, dalla promozione degli interessi dei gruppi storicamente marginalizzati, e con il controllo dei propri aderenti e delle loro violazioni. Questo gruppo ha le sue parole d’ordine, imperscrutabili per le vecchie generazioni di liberal: white privilege, cultura dello stupro, microaggressioni, safe space”. Questa sinistra universitaria si batte contro la generazione che a suo tempo è stata la sinistra universitaria, e ora è l’establishment: “Sono la generazione più liberal della storia americana, e vogliono ciò che spetta loro”. Questo, tuttavia, non spiega in che modo il 74 enne Sanders, gobbo e professorale antagonista della famosa “narrazione”, abbia conquistato questo brand generazionale della sinistra. L’immersione con il suo popolo aiuta a capire, perché nello stump speech televisivo si vede soltanto lo spettacolo monodimensionale dell’entusiasmo giovanile, è un trionfo rivoluzionario standard, dal vivo si notano sfumature e spessore. L’altro giorno al comizio al Palace Theater, a Manchester, i giovani erano come al solito sul palco, a fare da sfondo, ma in platea c’erano tanti pensionati, com’è peraltro naturale in uno degli stati più vecchi d’America. Erano persuasi e pronti a rimboccarsi le maniche per “get out the vote”, ma non gioiosi né ricolmi di speranza. Non si respirava un clima leggero, ma dominava il consesso la comune percezione di una minaccia imminente, anzi di una minaccia passata. I volontari della campagna sono ligi agli ordini, non si parla con i giornalisti, ma chi ha voglia di chiacchierare in forma anonima dice che “ci impoveriscono”, “ci rendono stupidi”, “ci tolgono i diritti”, “ci fottono”, “ci impediscono di ricevere un’educazione”.

 

In tutte queste constatazioni, ripetute con precisione marziale e marxiana, gli oppressori sono al centro della scena mentale, gli oppressi sono appena un po’ più a lato. Ma chi sono questi oppressori, esattamente? “Quelli di Wall Street” è la risposta comune, ma sono più spesso “loro”, gli adepti di un potere senza volto che sarebbe riduttivo limitare alle banche d’affari. Bernie, com’è noto, non se la prende nemmeno più con l’1 per cento, gli basta concentrarsi contro il primo decimo dell’1 per cento per infiammare i suoi. Di fronte a tanta insistenza sulla classe privilegiata e dominante diventa chiaro che la natura intima del suo messaggio è apocalittica. Bernie vende l’apocalisse. La sua strategia di marketing non è basata sulla rivoluzione in versione millennial, non è un “ehi ragazzi andiamo a occupare il campus con sacchi a pelo e droghe sintetiche”, ma sul sentimento cupo del male che avanza, condensato nel motto: “We’re doomed!”, siamo spacciati.

 

[**Video_box_2**]Sanders non è nemmeno un profeta della catastrofe imminente, perché è venuto a dire che l’apocalisse è già avvenuta, e i potenti hanno fatto in modo che non ce ne accorgessimo, l’hanno normalizzata. Dopo la crisi finanziaria del 2008 il mondo si è diviso in catastrofisti e ottimisti (o almeno possibilisti sulla tenuta del sistema), poi l’America è tornata lentamente a crescere, ma quell’esplosione di fanatismo apocalittico ha lasciato un segno nel subconscio della nazione e soprattutto nei giovani, che poi l’hanno ricoperta con strati di ironia hipster. “Perché nessun candidato tranne me parla di ambiente?”, grida Bernie. Risponde il popolo: “Per i finanziatori!”. A parte il fatto che di ambiente si parla eccome, il meccanismo logico è il passaggio centrale del libro dell’apocalisse di Bernie: non si parla di ambiente perché la lobby del petrolio controlla il processo elettorale tramite i finanziamenti. Le lobby sorelle sono quelle che impediscono una radicale riforma del sistema sanitario, l’accesso gratuito al college, la legalizzazione della marijuana. Nel mondo di Sanders non ci sono problemi separati da risolvere con soluzioni separate: ogni problema può essere ricondotto a un’unica radice, il Male, e nel redde rationem non ci sono gradi di separazione. C’è un unico, grandioso nemico. Silver ha notato la somiglianza impressionate fra il popolo di Bernie e quello di Ron Paul, il libertario che non è riuscito nemmeno a immaginare una campagna come quella di Bernie (e non ci è riuscito suo figlio Rand, che oggi è considerato un detrito elettorale, ma un anno e mezzo fa era la grande promessa antisistema, messo in copertina dal New York Times Magazine come un idolo punk) e a ben vedere l’analogia è calzante perché anche Paul è un araldo dell’apocalisse. La catastrofe libertaria non era incarnata da Wall Street ma dallo stato federale, che minacciava di entrare nelle case degli americani, togliere i diritti, le pistole, le tradizioni, dopo che li aveva già depredati dei soldi con tasse inique e li aveva spiati con i programmi di sorveglianza illegali. I fan di Bernie ballano scanzonati con i loro beanie sulle note dell’apocalisse.