La frammentazione del partito repubblicano americano e le altre ragioni della sua sconfitta
Dal nostro inviato a Manchester (New Hampshire). Le primarie repubblicane del New Hampshire non erano innanzitutto un test su Donald Trump, che era destinato a vincere e ha vinto molto prima dell’alba, erano un test sullo stato del repubblicani mainstream, quelli che ora vengono definiti moderati ma sono conservatori normali, senza livori iperbolici verso un sistema a cui sanno di appartenere. Alla vigilia, lo scenario peggiore immaginato da chi spera in una riunificazione del Gop per arginare gli istinti antisistema di Trump e Ted Cruz era una debole performance di Marco Rubio, che dopo la corsa sopra le aspettative in Iowa era salito al rango di candidato designato per la salvezza del partito. Si è materializzato un incubo anche peggiore. Dire che Rubio ha perso è un understatement, perché il quinto posto rimediato martedì ha smentito anche i suoi consiglieri più pragmatici, i quali sapevano che nelle lande bianche e innevate del New England non si correva per vincere. Lo schema per giocarsi la nomination era il 3-2-1: terzo posto in Iowa, secondo in New Hampshire e primo in South Carolina. Il quinto posto con appena il dieci per cento dei voti non faceva parte di alcun piano, e il terrore fra i suoi consiglieri è che non sia tutta colpa del dibattito in cui si è inceppato e robotizzato – così ha detto lui al suo popolo demoralizzato, promettendo: “Non succederà mai più!”, ma che la sua candidatura abbia limiti più strutturali e profondi, che comprendono, ma non si esauriscono, nella saga di Robot Rubio. Presto si unirà al suo team anche Chip Englander, ex manager di Rand Paul, segno che vuole andare a pescare nel bacino elettorale di tendenza libertaria: da quelle parti aveva bazzicato già nel 2010, quando è stato eletto al Senato.
Invece di unirsi, il Partito repubblicano si è ulteriormente frammentato, disperdendo voti preziosi e perdendosi in sanguinose battaglie interne, legate più a vendette personali e piccoli tormenti di potere che a effettive divergenze politiche. John Kasich, presentabile governatore dello swing state per eccellenza, l’Ohio, più prono a citare il Vangelo che ad aggredire gli avversari, è arrivato al secondo posto con un grandioso lavoro sul campo (oltre 180 visite nell’ultimo anno, non c’è angolo in cui non si sia fermato a stringere mani, i suoi rassicuranti volontari hanno massaggiato gli elettori uno per uno) che ha prosciugato tutte le sue risorse, e anche di più. Ora Kasich ha un paio di milioni di dollari di debiti e poche idee su come replicare il modello New Hampshire fuori dalla sua “comfort zone” politica. Non è un candidato che scalda cuori e sprona a tirare fuori il portafogli – di solito viene paragonato a Jon Huntsman, pessimo auspicio – è improbabile che la marea dei piccoli finanziatori fin qui dormiente si sposti ora in suo favore, ma se c’è una cosa che la sua episodica cavalcata dimostra è che i candidati mainstream una possibilità di battere le forze antisistema ce l’avevano, e l’hanno buttata.
Quando Cruz, finito terzo, parla di “vittoria” e dice che “questa serata lascia il cartello di Washington totalmente agghiacciato” esprime almeno un pezzo di verità. Ma è soltanto un pezzo, perché all’appeal populista si è aggiunta in modo decisivo l’inettitudine di un establishment incapace di concentrarsi su un progetto condiviso, per non dire addirittura su un solo candidato. L’antipolitica fa leva sugli istinti suicidi della politica. Anche a sinistra la sconfitta di Hillary racconta una vicenda d’insoddisfazione per la politica tradizionale, ma la débâcle dell’ex segretario di stato è tutta nel divario abissale, ché sulla vittoria di Bernie Sanders nel suo backyard non c’erano molti dubbi. Così, come ha scritto il New York Times, Trump ha vinto due volte, nel conteggio delle schede e nello spettacolo della divisione dell’odiata classe dei professionisti di Washington. Trump ha conquistato un elettorato trasversale: ha caricato la base, che ha lavorato duramente e con ordine, e ma è andato anche a prendere il voto dei moderati, quelli che Rubio non è riuscito a convincere. La vicenda di Chris Christie, già nota come “l’omicidio-suicidio”, è la sintesi delle responsabilità del partito nel trionfo trumpiano. Christie ha passato una settimana ad attaccare Rubio in tutti i modi, è lui che ha inventato la storia del Robot, ha bombardato i salotti del New Hampshire di spot negativi, ha spinto con forza da avvocato del New Jersey il messaggio che Rubio è unfit, è un senatore tutto chiacchiere e zero esperienza. Tutto questo agitarsi, combattere e spendere non ha fruttato molto: sesto posto con una percentuale quasi irrisoria, nemmeno abbastanza per qualificarsi per il prossimo dibattito in South Carolina. Ora è in New Jersey per valutare se proseguire. “Prima passerà da Jeb a ritirare il suo assegno”, ironizzava un attivista di Rubio, rigorosamente anonimo, alla triste festa dello spoglio. Che il fu mentore sia il mandante dell’omicidio-suicidio eseguito da Christie è opinione comune nel mondo Rubio.
[**Video_box_2**]Lunedì sera, nell’ultimo comizio elettorale prima del voto, alcuni sparuti manifestanti senza segni di militanza specifica si sono confusi fra la folla di Rubio e hanno preso a urlare: “Sei inefficace!”, “non hai esperienza!”, “sei troppo giovane!”, prima di essere allontanati dalla sicurezza. Ora: fossero stati, per dire, attivisti pro choice che contestano le posizioni di Rubio sull’aborto si sarebbe capito, ma nessuno che non ha una buona ragione si prende la briga di guidare nella tempesta di neve per andare a gridare a un candidato “sei inefficace!”. Quando hanno preso a urlare, gli uomini di Rubio non erano affatto sorpresi, e si guardavano fra loro come a dire: sappiamo benissimo chi li ha mandati. L’ex governatore della Florida ha fatto perfino trapelare ai giornalisti il passaggio di un memo riservato: “Rubio ha dimostrato di non avere nessun rispetto per il processo della nomination e si aspettava che questa fosse un’incoronazione”. Un avvertimento più che un documento strategico. Dietro alle primarie del New Hampshire c’è una guerra tutta interna alla Florida, con un bilioso Jeb che ha deciso di farla pagare al ragazzo che ha tentato il parricidio politico. Dopo lo spoglio, il manager della campagna di Bush, Danny Diaz, ha sferrato su Twitter l’attacco frontale: Rubio “ha perso il momentum, è stato svelato il fatto che è completamente impreparato per diventare presidente”, “non potrebbe stare su un palco con Hillary, e non avrà mai la chance per farlo” e altre invettive che sono un saggio inquietante dello stato di un partito convinto, a parole, di poter arginare Trump. Infine, Diaz ha ricordato che Jeb è arrivato terzo.
Cose dai nostri schermi