George W. Bush torna nell'arena
New York. Dopo sette anni di vita semiprivata, lontano dai comizi e dall’adrenalina elettorale, George W. Bush è tornato nell’agone per dare una spinta all’assonnata campagna del fratello Jeb e per seppellire Donald Trump senza nemmeno nominarlo: “Capisco che gli americani sono arrabbiati e frustrati, ma non abbiamo bisogno di qualcuno nello studio ovale che rispecchi e infiammi la nostra rabbia e la nostra frustrazione”, ha detto a Charleston, in South Carolina, dove l’accento southern aiuta. Era appena inevitabile che si arrivasse alla questione dell’11 settembre, che Trump usa come nuova linea d’attacco per pungolare in un altro punto l’establishment, camminando sul crinale della teoria del complotto e vaneggiando di un governo che al tempo dei fatti sapeva cose talmente indicibili che non si sa poi bene quali siano.
“Se chiudi gli occhi ti sembra di sentire Michael Moore”, ha detto Jeb, ma l’ha potuta buttare sul dileggio politico soltanto dopo che il fratello maggiore ha evocato la classe di quella scuola elementare della Florida dove si trovava mentre la grande ferita s’apriva sull’America e sull’intero occidente. Su Fox News, in contemporanea, Dick Cheney faceva a pezzi Trump in modo più puntuale e cheneyano, e la visione simultanea sul grande doppio schermo di questa epoca era un pezzo di passato che improvvisamente ritorna. Però con Twitter. Ma non è l’epica eroica o tragica, comunque storica, il dato più impressionante di questo nuovo esordio bushiano come “surrogate” del fratello arenato.
[**Video_box_2**]Piuttosto il tono spigliato, la capacità di creare un legame immediato con il pubblico, il modo umano di recitare lo stump speech che ora porterà in giro per lo stato dove si vota sabato per le primarie repubblicane, le battute, l’aneddotica spensierata del cowboy della porta accanto. Molti giornalisti americani nei loro resoconti di giornata lo hanno definito “folksy”, un personaggio d’affabilità popolare: mica poco in una campagna di urlatori e robot. Al netto del grigiore che avanza e dei calcoli statistici sull'influenza elettorale, quando parlava c’era da chiedersi per quale motivo Jeb non avesse giocato prima la carta di famiglia. Quando il candidato con il punto esclamativo ha preso la parola s’è capito che il confronto costante con Dubya avrebbe seppellito anche lui, non solo Trump, e va detto che Jeb ieri aveva una marcia in più sul palco, come garantisce anche Ed O’Keefe del Washington Post, lo stoico cronista che da un anno lo segue comizio dopo comizio.
Cosa c'è in gioco