Primarie d'America
In Nevada va in scena la sfida ispanico-religiosa tra Rubio e Cruz
Roma. Come i soliti “Dieci piccoli indiani”, i candidati repubblicani per la Casa Bianca perdono un pezzo alla volta. E come gli zombie di “The Walking Dead”, non appena la corsa di Jeb Bush è stata soppressa dal suo stesso titolare, gli incaricati al finanziamento di Ted Cruz e Marco Rubio si sono messi a caccia dei grandi sostenitori dell’ex governatore della Florida, nella speranza di spartirsi gli avanzi di una campagna costosa (100 milioni di dollari) e inefficace come la sua. Niente di fatto per ora, scetticismo dei paperoni e portafogli ben chiusi, per quanto il tempo stringa, col voto di martedì nei caucus del Nevada che potrebbe fornire altra benzina al piano di colonizzazione di Donald Trump. Gli occhi sono puntati su Sheldon Adelson, big donor corteggiato e pretenzioso, che ha dato soldi a Cruz ma che possiede un giornale che ha fatto l’endorsement a Rubio. Lo stesso Jeb Bush non si pronuncia, ma per Rubio è auspicabile ricevere presto il suo endorsement – prima del Supertuesday di martedì prossimo, con il voto in undici stati che indirizzerà in modo inequivocabile le primarie – così come quello probabile di Mitt Romney, che in Nevada vinse bene nel 2012 e che già a quei tempi valutò Rubio come compagno di ticket per le presidenziali, optando infine per Paul Ryan. L’appoggio di Romney sarebbe la conferma dell’orientamento del Partito repubblicano in favore del giovane candidato di origini cubane, per quanto questi ragionamenti oggi sembrino utili a capire chi arriverà secondo in una corsa senza precedenti, dominata da un personaggio privo di appartenenza alla politica tradizionale e fautore di una personalizzazione della scelta che sembra l’unico fattore capace di stuzzicare i torpori conservatori.
La scia delle due recenti vittorie di Trump e lo spirito antigovernativo dell’elettorato del Nevada lasciano prevedere un suo nuovo successo in uno stato dove peraltro è di casa, con diversi business attivi a Las Vegas, a cominciare da un mega-hotel. Ma ci sono anche altre varianti delle quali converrà tener conto, a cominciare dall’inesperienza delle strutture locali nella gestione dei caucus, che in Nevada sono quasi una novità. E poi le centinaia di chilometri che molti abitanti dello stato dovranno sobbarcarsi per andare a votare, al punto di farsene passare la voglia. E soprattutto lo scarso attaccamento dei locali alla cosa pubblica, con uno stato latitante ed economicamente male in arnese, poca organizzazione sociale e scarsi fattori coesivi della comunità. In Nevada votano in pochi (30 mila o giù di lì) e questi candidati non sembrano progettati per motivarli.
[**Video_box_2**]Avrà un qualche peso il fattore religioso, coi mormoni del Nevada che tradizionalmente sono politicamente impegnati e Marco Rubio che rispolvera dalla sua biografia gli anni dell’adolescenza in cui si affiliò alla Chiesaa degli ultimi giorni (dagli 8 agli 11, mentre viveva a Las Vegas, figlio di un barman d’albergo), salvo ripensarci rapidamente. Cruz chiamerà di nuovo a raccolta gli evangelici, che da queste parti non abbondano – e del resto anche in South Carolina, dov’erano il 73 per cento dei votanti, non hanno scelto lui, bensì il solito Trump (33 a 27 per cento). Insomma: il ciuffo arancione di The Don sventolerà anche sul Nevada? Probabile, ma Rubio, grazie agli endorsement, potrebbe prendere un vantaggio nella sfida tutta latina con Ted Cruz per la seconda piazza. Ma la corsa ormai è a pieno regime e si scommette solo sul vincente. Conta soltanto quel risultato. I piazzati sono pagati zero.
I conservatori inglesi