La politica dei tubi russi manda in tilt l'Europa. Reazioni americane

Dario D'Urso
Il Cremlino usa il gas come arma contro l'Europa e prova a dimostrare di avere in mano le leve giuste per stroncare ogni velleità di strategia energetica comune europea. Anche se Mosca non appare in grado di poter pompare tutto il gas che promette

Roma. Quella in Siria non è l’unica battaglia che Mosca sta attivamente combattendo fuori dai suoi confini nazionali. Ve n’è un’altra che il Cremlino ha recentemente ripreso senza utilizzare i propri caccia, ma ottenendo comunque risultati lusinghieri. Questa volta il campo di battaglia è l’Europa e l’arma usata dai russi è vecchia ma sempre efficace: il gas. La prima “bomba” colpisce sul sicuro, lì dove il Cremlino ha già fatto centro in passato. Con l’accordo sul raddoppio del gasdotto Nord Stream siglato a settembre 2015 tra Gazprom, le tedesche Basf e E.On, la francese Engie, l’anglo-olandese Shell e l’austriaca Omv, Mosca ha mandato all’aria l’immagine di una Germania baluardo contro l’instabilità propagata dalla Russia in Ucraina. Sposando il Nord Stream 2, la cancelliera Merkel è riuscita dove Putin da solo non avrebbe mai potuto. Ha messo in allarme mezza Europa orientale che – Polonia e Ucraina in testa – teme di perdere economicamente per i mancati introiti da transito e politicamente per la percezione di un rinascente asse Berlino-Mosca. Ha offerto la percezione che, alla fine, gli interessi nazionali contino più di quelli faticosamente assemblati in sede europea, facendo immaginare cosa potrà accadere a Bruxelles quando si discuterà del prossimo rinnovo delle sanzioni contro Mosca e rallentando i piani – altrettanto faticosi – di un’Unione energetica promossi dalla Commissione. Last but not least, ha contribuito alla sensazione di accerchiamento anti italiano così fortemente avvertita in queste settimane a Roma, con Renzi che proprio non riesce a capacitarsi del perché Bruxelles non stronchi Nord Stream 2 così come ha fatto con il “nostro” South Stream, mentre la Commissione si scervella se le regole dell’unbundling (chi costruisce il gasdotto non può gestirlo da monopolista) si possano applicare in toto anche a un progetto in larga parte offshore.

 

Ed ecco che, tanto per non scontentare nessuno e tornando a incrinare l’unità di intenti europea, Mosca rispolvera per bocca del suo ministro dell’Energia Turkish Stream, ritenuto da tutti ormai defunto per via delle persistenti tensioni tra il Cremlino e Ankara sulla Siria: Aleksandr Novak ha dichiarato a gennaio che la Russia sta ancora considerando la costruzione del gasdotto, “a patto che turchi ed europei mostrino finalmente interesse”. Ma gli assi nella manica – e la confusione – non finiscono qui: dalle parti di Sofia si moltiplicano le voci di una “resurrezione” di South Stream, con il premier bulgaro Borisov – un tempo campione dell’indipendenza energetica da Mosca – impegnato in un flirt avanzato col Cremlino affinché si riprenda la costruzione della porzione sottomarina del gasdotto, per collegarlo a un hub che dovrebbe sorgere a Varna per rifornire i paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica. Da Mosca sembrano apprezzare, come dimostrano le recenti dichiarazioni di Vladimir Chizhov, ambasciatore russo presso l’Ue. Un mini South Stream quindi – chiamatelo pure Bulgarian Stream – che conserverebbe il pezzo più pregiato per l’Italia: la sezione poggiata sui fondali del mar Nero originariamente commissionata a Saipem.

 

[**Video_box_2**]Mosca sta dimostrando di avere in mano sia le leve giuste per far gola agli interessi energetici nazionali di ogni paese europeo sia le armi per stroncare ogni velleità di strategia energetica comune europea. Ma si tratta di armi cariche? I dubbi vi sono, eccome. Mosca non appare in grado di poter pompare tutto il gas che, teoricamente, promette, come dimostra il caso di Power of Siberia, il mega gasdotto che avrebbe dovuto segnare il riorientamento del mercato energetico russo da ovest a est portando il gas da alcuni giacimenti siberiani in Cina. Secondo fonti russe, il progetto fornirà introiti a Gazprom solo tra trent’anni, a fronte di una ridotta capacità estrattiva, un prezzo del gas che segue la caduta libera di quello del petrolio e il costante rallentamento dell’economia cinese. Il divide et impera energetico del Cremlino nasconde, alla fine, una tigre di gas? Possibile. Eppure, sul Wall Street Journal, due analisti del pensatoio American Security Project, Stephen Cheney e Andrew Holland, incalzavano il Congresso americano ad approvare in fretta la legge che consente l’esportazione di gas naturale liquefatto. Questo gas fornirebbe all’Europa un’“alternativa amichevole” al gas russo che costituisce “la metà del gas importato dal Vecchio continente”, alimentando “una politica avvelenata” nell’area.