Le selezioni iraniane
A Teheran non è ancora sorto il sole sul mondo migliore di Hassan Rohani: il boom economico è ancora un miraggio, l’America resta il Grande Satana e, alla vigilia delle elezioni, si respira un senso di dejà-vu, come se consumati teatranti si producessero nell’ennesima variazione dello stesso copione con gli arresti preventivi all’ombra delle solite faide tra falchi e colombe, gli appelli al voto epico e il Consiglio dei Guardiani nel ruolo del cattivo per antonomasia.
Dopo aver atteso il deal come l’alba di un tempo nuovo più semplice e più giusto, gli iraniani restano a metà del guado in un luogo impenetrabile e contraddittorio. Yeki bud, yeki nabud – letteralmente qualcuno c’era, qualcuno non c’era – recita il “c’era una volta” con cui si aprono tutte le fiabe persiane e pare la sintesi perfetta dell’atmosfera che si respira in una Teheran incerta tra status quo e voglia di normalità.
L’Iran è l’ultima miniera d’oro in attesa di essere esplorata – come scrive il Financial Times – o piuttosto la “minaccia alla pace e alla sicurezza mediorientale” vaticinata da Hillary Clinton? E, per gli iraniani, Barack Obama resta il fantoccio da svilire preghiera dopo preghiera del venerdì o va considerato il capo del villaggio globale con cui, obtorto collo, bisogna rassegnarsi a parlare? (“Voi negoziereste con il capo-villaggio o con i suoi sottoposti?”, disse Rohani nell’estate del 2013, polverizzando gli avversari in un dibattito che lo ha consacrato stella dei moderati).
Come in uno degli opulenti ayeneh kari, i saloni degli specchi che adornano i palazzi e le moschee iraniane, ogni immagine appare sospesa e nessuna è definitiva – le linee rosse dell’Ayatollah Ali Khamenei e i sorrisi del ministero degli Esteri Javad Zarif, le ragazze con i leggings e i bassiji, gli onori di stato ai funerali dei generali iraniani morti da martiri in Siria e le startup di Avatech, l’incubatrice tecnologica nel campus di ingegneria dell’Università di Teheran –, ogni frammento del mosaico si contrappone a un altro in un continuo gioco di distorsioni e di rimandi.
Ci sono John (Kerry) e Javad (Zarif) che si scambiano telefonate con la confidenza di vecchi colleghi, Khamenei che appunta medaglie sulle uniformi dei comandanti che hanno catturato i marinai americani, il Wall Street Journal che descrive la “legione iraniana” in Siria e il New York Times con la rivelazione del piano B di Obama contro l’Iran. Ogni notizia che riguarda il rapporto Teheran-Washington viene analizzata come una cartina di tornasole capace di alterare di per sé e da un momento all’altro il futuro della regione, quando invece proprio la moltiplicazione di segnali, tanto emblematici quanto contraddittori, dovrebbe suggerire cautela.
Anche se l’Iran è un elemento centrale della legacy obamiana e il segretario di stato Kerry ha aperto spiragli sulla cooperazione post deal, la Casa Bianca ha più volte sottolineato che le divisioni riguardo a Israele, al sostegno al terrorismo e ai missili balistici di Teheran sono profonde. Quanto all’Iran non si può prescindere dal fatto che, come ha sottolineato Matthew Trevitick, uno degli ostaggi liberati a Teheran il giorno dell’implementation day: “L’Iran è una nazione in guerra con se stessa”. Come potrebbe giustificare la strenua difesa della fortezza dagli infiltrati – gli infiltrati, in primis reporter, accademici, consulenti e uomini d’affari, sono la minaccia più evocata dal regime nel nuovo mondo post deal – se il nemico per definizione non fosse più tale? La Repubblica Islamica non può permettersi alcun cedimento, deve aggrapparsi ai suoi simboli – dall’antiamericanismo all’hijab – tenere la barra dritta. Khamenei non condividerebbe nemmeno un té in punto di morte con il capo-villaggio Obama e la sua flessibilità appare semmai circoscritta alla politica economica “dell’Occidente meno gli Stati Uniti”, ossia relazioni con i big player europei (e ovviamente asiatici), ma non con Washington, un po’come fu nei primi anni Novanta, quando la Germania battezzò la locuzione “dialogo-costruttivo”. Ciò non toglie che l’interpretazione della flessibilità sia raramente univoca a Teheran: Iran Air, ad esempio, ha appena firmato un accordo da 27 miliardi di dollari con Airbus, ma l’amministratore delegato della compagnia di bandiera iraniana Farhad Parvaresh ha detto in un’intervista a Bloomberg che anche Boeing dovrebbe farsi avanti: “Noi abbiamo sempre pensato che i 737 (di Boeing, ndr) fossero un’opzione perfetta per il mercato interno, ma hanno trovato un rivale negli A320”, peccato che gli americani “siano rimasti un po’ indietro”, ha aggiunto, peccato per la ritrosia del Tesoro nel concedere una licenza, ma in futuro Teheran potrebbe benissimo acquistare altri aerei anche americani (e venerdì scorso Boeing ha infine annunciato di aver ricevuto il via libera per esplorare il mercato dell’areonautica civile iraniana).
Quello che da sempre confonde le cancellerie occidentali nei rapporti con l’Iran è proprio l’incostanza, la sensazione che nessuna risposta sia mai definitiva, che ci siano sempre due voci da sentire – il poliziotto buono e quello cattivo – e che l’interlocutore disponibile non sia mai quello giusto (“chi comanda davvero a Teheran?” è la madre di tutte le domande agli analisti), ma questa schizofrenia abilmente sfruttata in politica è più problematica in economia. Nel 2004 il governo Khatami affidò la gestione dell’areoporto Imam Khomeini di Teheran a un consorzio austro-turco, ma pochi mesi dopo arrivarono i pasdaran e cacciarono gli “stranieri” che secondo loro minacciavano la sicurezza nazionale. Con le sue offensive mediatiche tra Davos e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Rohani si è impegnato a tranquillizzare gli investitori internazionali sul fatto che il vento è cambiato e che lui offre garanzie anche per conto di Khamenei, ma gli arresti eccellenti di iraniani-americani legati alle grandi corporation, come quello dell’ex consigliere di Crescent Oil Siamak Pourzand o quello del libanese-americano Nazar Zaka, sono la dimostrazione che i sussulti del regime non si sono placati.
L’analista del Carnagie Endowment, Karim Sadjadpour definisce la nuova strategia iraniana verso Washington “contained antagonism”, un antagonismo temperato tanto dallo stile moderato del governo Rohani quanto dalla necessità di costruire, o fingere di costruire, tattiche regionali più flessibili. Lo spauracchio della normalizzazione Teheran-Washington è un feticcio troppo divertente per non essere ostentato davanti agli occhi disgustati dei sauditi, ma gli iraniani sanno che non è questo il mandato di Rohani.
Così, consapevoli che chissà, forse un giorno, Inshallah, le cose potrebbero cambiare, ma che per ora lo sono molto poco (a oggi, i più consistenti accordi economici siglati tra iraniani e gruppi occidentali coinvolgono conglomerati parastatali legati ai pasdaran piuttosto che l’iniziativa privata), gli iraniani si apprestano a recarsi alle urne con familiare disincanto.
Il 26 febbraio si terranno sia le elezioni legislative per il rinnovo del Parlamento (290 membri) sia quelle per determinare la composizione del Majles-e Khobregan (88 rappresentanti), l’Assemblea degli esperti che elegge la Guida suprema e che, teoricamente, ha la facoltà di rimuoverla. In Iran non c’è stato appuntamento elettorale che non si sia meritato gli appellativi di storico o epico, ma più che elezioni quelle iraniane sono “selezioni” tra insider del regime. Il decalogo elettorale di Khamenei intepretato dallo scrittore satirico (in esilio) Ebrahim Nabavi inizia così: 1) “Voi parteciperete liberamente alle elezioni votando per i miei candidati” 2) “I miei sostenitori parteciperanno alle elezioni e voteranno chiunque vogliano. Anche i miei oppositori devono recarsi alle urne e votare i miei sostenitori”. Ma non c’è sintesi più compiuta della flessibilità elettorale della Guida suprema del decimo punto del decalogo immaginario di Nabavi: “Voi dovreste votare candidati giovani. Dichiaro che tutti i miei oppositori hanno dieci anni in più e tutti i miei sostenitori dieci anni in meno”.
Nelle elezioni iraniane ogni candidato subisce un primo controllo relativo all’eleggibilità (ossia l’adesione ai diktat rivoluzionari) da parte di consigli ad hoc istituiti dal ministero dell’Interno e un secondo screening – assai più stringente – condotto dal Consiglio dei Guardiani, che è, di fatto, la cabina di regia di Khamenei. (Stavolta le epurazioni hanno coinvolto circa il 60 per cento dei 12 mila candidati registrati per le legislative e l’80 per cento dei papabili per il Consiglio degli esperti). A ogni tornata arrivano le prevedibili bocciature del Consiglio e rieccheggia puntuale l’indignazione degli esclusi che sarà pure reale e drammatica per i protagonisti – quest’anno la palma dello sdegno va ad Hassan Khomeini, nipote del padre della rivoluzione sponsorizzato dall’ex presidente Hashemi Rafsanjani – ma va riportata al suo contesto, ossia a quello di una competizione tra clan, cordate, maître à penser, militari, burocrati e leader religiosi divisi da interessi spirituali e molto mondani.
In Iran i partiti sono sempre stati deboli: negli anni Ottanta le distinzioni erano soprattutto legate agli orientamenti economici e all’obbiettivo di esportare la Rivoluzione. La sinistra era più dirigista, la destra più amica dell’impresa privata e, per via dei suoi legami con il bazaar, più incline a politiche pragmatiche favorevoli alla stabilità e al commercio; la sinistra più permissiva sul fronte delle libertà sociali e la destra più conservatrice.
Ma ci sono figure – per esempio quella di Hashemi Rafsanjani, ex presidente passato nel corso di una lunga e astuta carriera politica da bestia nera dei dissidenti al ruolo di padre nobile dei moderati – che hanno attraversato gli schieramenti, un salto reso meno impudico soprattutto a partire dagli anni Novanta, quando la morte di Khomeini da un lato e il crollo dell’Unione Sovietica dall’altro hanno rimescolato le alleanze e indebolito gli steccati. Le distinzioni tra i vari gruppi sono diventate ancora più fluide dopo il 2009, quando la reazione degli iraniani ai brogli a favore dell’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad ha spinto Khamenei a restringere ulteriormente i confini della legittimità politica. I conservatori falchi hanno emarginato i tradizionalisti, i due principali partiti politici riformisti sono stati banditi e i cartelli che si sono formati in seguito uniscono personalità che in passato non sarebbero mai state insieme. Quest’anno la coalizione delle colombe va dal riformista “stile-Khatami” Mohammed Reza Aref al conservatore atipico Ali Motahhari, figlio tutt’altro che progressista di un ideologo della Rivoluzione morto assassinato, animato da un’energica opposizione allo strapotere dei pasdaran in giacca e cravatta.
Il modello da replicare è quello che ha portato alla vittoria alle presidenziali di Rohani: un’alleanza tra conservatori tradizionali (come il capo del Parlamento Ali Larijani), pragmatici di scuola rafsanjaniana e riformisti-light con l’obiettivo di rilanciare l’economia, sconfiggere oltranzisti tipo l’ayatollah Mesbah Yazdi (già ispiratore di Mahmoud Ahmadinejad) e contenere la corruzione dei troppi mister dieci per cento che drenano risorse dalle casse dello stato.
Il sogno impraticabile della democrazia islamica di Mohammed Khatami non viene più nemmeno evocato ai comizi e la competizione si gioca tutta nello scontro tra l’ambizione allo sviluppo e il fantasma dell’invasione culturale. Per i riformisti nuova maniera si tratta della prima occasione di riscatto da quasi un decennio, per Rohani di un test sulla leadership che potrebbe avere ripercussioni significative anche in vista delle presidenziali dell’anno prossimo. Il suo obiettivo è quello di assicurarsi un Parlamento se non favorevole alle sue riforme almeno non ostile, ma Rohani è anche un candidato all’elezione del Consiglio degli esperti e, in questo caso, la partita ha un valore simbolico più alto. L’età di Khamenei (76 anni) avanza e la sua salute è malconcia – solo gli avvistamenti di ufo sono più assidui delle indiscrezioni sulla morte prossima ventura di Khamenei – e i membri del Consiglio avranno un ruolo centrale nel determinare la direzione della rivoluzione khomeinista. Modello Brics o tendenza Pyongyang? Rafsanjani – anche lui candidato – ha teorizzato la possibilità che in futuro il ruolo del leader supremo possa essere ricoperto da un organo colleggiale, ma l’ipotesi è osteggiata dal trio reazionario formato da Mohammed Yazdi, Ahmad Jannati e Mesbah Yazdi e molto di quello che accadrà nell’Assemblea sarà determinato tanto dalla capacità dei moderati di negoziare con gli oltranzisti (i talenti di deal-maker di Rafsanjani non vanno sottovalutati) quanto dall’influenza dei pasdaran che non sono nel Consiglio ma sono ormai di gran lunga più influenti di tre quarti dei suoi membri.
Conscio di aver deluso i suoi elettori a dispetto del deal, il presidente corteggia gli iraniani ricordando che, nella Repubblica Islamica, non si stava affatto meglio quando si stava peggio. “Il nostro voto sarà un ‘no’ agli estremisti”, ha detto l’11 febbraio. “Vogliamo costruire un Iran prospero e non ce la faremo se resterà isolato. La nostra gente non merita ferrovie, strade, automobili e un’aviazione decrepita. Gli iraniani si meritano il meglio’’, ha insistito il presidente. Anche se qualcosa non vi è piaciuto, non disertate le urne, pensateci bene, ha sussurrato Rohani: “Se un negozio non ha i vestiti ideali per vostro figlio non comprereste comunque quel che c’è di meglio per proteggerlo da un raffreddore?”.
[**Video_box_2**]Ufficialmente la campagna elettorale è iniziata giovedì 18 febbraio, ma i candidati sono già all’opera da settimane a lanciare slogan su Telegram, l’app preferita dagli iraniani. Innervosito dai continui appelli al voto utile di Rohani, il consigliere di Khamenei Gholam Ali Haddad Adel ha insinuato che questa strategia è stata concordata con gli americani. Neanche i falchi comunque sono più quelli di una volta e nessuno si è stupito quando Amir Tataloo, un rapper un tempo molto underground con capelli lunghi, tatuaggi e più di 2 milioni di fan su Instagram, è stato cooptato alla causa nazionalista-pop dei pasdaran per convincere gli iraniani a riappropriarsi alla causa più che che mai del martirio.
I moderati invece hanno avuto un approccio più tradizionale e il quotidiano Shargh ha dato ampio risalto ai discorsi tenuti all’Università Amir Kabir di Teheran da Aref e Motahhari. Dei due è stato il conservatore indignato a offrire gli spunti più interessanti per il dibattito, quando ha affermato che in Iran sono state create “linee rosse artificiali contro la libertà d’espressione”. Così Motahhari, più noto alle cronache per aver preteso spiegazioni dal ministro dell’Interno sul dilagare dei leggins nelle strade iraniane, è diventato tutto a un tratto un insperato difensore dello stato di diritto e ha citato il caso di Sattar Behesti, il blogger morto nel 2012 dopo essere stato torturato nella famigerata prigione di Evin. “Non possiamo calpestare i diritti della gente con la scusa di proteggere la Repubblica Islamica”, ha detto Motahhari ed è parsa a tutti l’evocazione più convicente delle promesse disattese di Rohani.
Mentre le delegazioni straniere affollano le lobby degli hotel di Teheran, per i prigionieri del regime in Iran è cambiato poco o nulla. “L’abbiamo votata anche per tenere viva la speranza di avere più giustizia e più gentilezza nella nostra società – ha scritto a Rohani la mamma del giornalista iraniano naturalizzato inglese Bahman Daroshafaei (già in forza alla Bbc) – Una settimana fa, un paio di uomini erano qui ad aspettare che abbracciassi mio figlio e lo salutassi. Lo hanno portato via senza dirmi dove lo avrebbero portato né cosa volessero da lui. Non credo sia necessario essere scrittori professionisti per scrivere di ingiustizia. Lei mi deve qualcosa, Signor Presidente”.
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