In Libia forze speciali francesi hanno fatto quattro attacchi contro lo Stato islamico
Kuwait City. Le Monde con fonti francesi e Associated Press grazie a fonti dell’esercito libico raccontano la guerra segreta delle forze speciali francesi in Libia. Il governo di Parigi ha da tempo autorizzato, secondo la giornalista Nathalie Guibert, l’inizio di operazioni clandestine da parte di un piccolo contingente misto di militari e intelligence. Le forze francesi operano nell’est controllato dall’esercito del generale Khalifa Haftar, che intanto sta riprendendo Bengasi, anche grazie a questo aiuto esterno. Una squadra di 15 uomini delle forze speciali francesi ha compiuto quattro missioni contro lo Stato islamico e altre milizie islamiste, proprio a Bengasi. I francesi, assieme a squadre americane e inglesi, sono di stanza nella base aerea di Benina. Stanno aiutando Haftar e questo è un fatto politico, oltre che militare, perché Parigi sembra considerare troppo lento e poco utile il negoziato infinito per la creazione di un governo di accordo nazionale sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Appoggia direttamente Haftar, una figura ingombrante che ostacola quell’accordo. E combatte anche contro non meglio specificate “milizie islamiste”, oltre allo Stato islamico, dettaglio che farà infuriare il governo di Tripoli, che si sentirà attaccato. La Difesa francese non commenta e annuncia un’inchiesta per la fuga di notizie, ma una fonte anonima rivela un dettaglio importante: il raid americano che a novembre ha ucciso il comandante dello Stato islamico in Libia, l’iracheno Abu Nabil al Anbari (in Libia aveva preso un altro nome: Abu Mughira al Qahtani), è partito dalle informazioni arrivate da Parigi. Un’osservazione: fu compiuto all’alba del 14 novembre, quindi l’inizio di questa campagna segreta è anteriore alla strage di Parigi.
L’operazione dell’esercito libico (quello che fa capo a Haftar) a cui hanno preso parte le forze speciali francesi è cominciata il 20 febbraio ed è stata chiamata “Sangue dei martiri”. Lo scopo era spingere indietro un fronte che era presidiato, in una strana coabitazione, sia dallo Stato islamico sia da Ansar al Sharia, che è un gruppo un po’ parente e un po’ rivale che però a Bengasi combatte sotto l’ombrello islamista di una coalizione che si chiama Consiglio rivoluzionario di Bengasi. Questo gioco delle parentele permette al governo rivale di Tripoli di appoggiare il fronte anti Haftar schivando al tempo stesso l’accusa di aiutare lo Stato islamico – schivando per modo di dire, perché il generale definisce tutti i suoi nemici come “terroristi”. L’operazione militare ha avuto successo e ha sbloccato uno stallo che durava da mesi. I soldati da giorni pubblicano filmati vittoriosi, come per esempio la riconquista dell’ospedale di Hawari, costata la vita ad almeno trenta di loro, ma viene da chiedersi come quindici uomini delle forze speciali francesi abbiano fatto la differenza, se l’hanno fatta. Forse, è un’ipotesi, guidano attacchi aerei da terra, o compiono raid per uccidere i leader nemici.
Due giorni fa lo Stato islamico ha tentato un colpo di mano per conquistare Sabratha, dove venerdì scorso un raid aereo americano ha ucciso circa quaranta combattenti del gruppo, un loro capo tunisino e due ostaggi serbi. Un centinaio di estremisti ha occupato alcuni edifici governativi e ha ucciso alcuni prigionieri – ne ha decapitati dodici, secondo una nota del Consiglio municipale della città. Le milizie locali hanno reagito e hanno costretto lo Stato islamico ad abbandonare le sue posizioni, in una notte di combattimenti. Fonti libiche nell’area dicono al Foglio che il gruppo ha fatto questo tentativo perché stava perdendo la sua presa già non fermissima sull’area. “Non avevano le forze prima, non sono riusciti ad averle adesso”.
Domenica c’era stato un secondo raid aereo, e poi una sequenza di arresti. In città il clima di indifferenza verso il traffico dei combattenti – don’t ask don’t tell, si direbbe in altri contesti – era finito. Un uomo del gruppo catturato ha detto che tra i piani c’era un assalto a Ben Guardene, una cittadina tunisina vicina al confine, un’ora di auto più a est. Forse era questo il motivo della concentrazione di combattenti colpita venerdì scorso. L’impianto del gas Eni di Mellitah è lontano soltanto pochi chilometri, protetto per ora da un dispositivo di sicurezza locale con collaborazione anche italiana.
[**Video_box_2**]Lo Stato islamico in Libia soffre di carenza di manovalanza, ma sta rimediando con la stessa strategia di reclutamento usata da Muhammar Gheddafi quando si trovò a corto di uomini per spegnere la rivolta nel 2011: andare a pescare nell’immenso bacino dei paesi subsahariani. Per essere più precisi, la fascia dei paesi vicini alle rotte che portano verso la Libia: Senegal, Niger, Nigeria, Mali, Chad, Sudan, e altri. Non è una linea politica dichiarata in modo esplicito dal gruppo, piuttosto emerge – come molte altre cose – dalla propaganda che mette in rete. Tre settimane ha fatto circolare un video intitolato “La battaglia dello Sceicco Abu Mughirah al Qahtani”, in cui il ruolo dei combattenti stranieri arrivati da sud era molto enfatizzato. Un comandante dalla pelle scura arringa gli uomini prima dell’inizio di combattimenti. Un altro è inquadrato a lungo mentre si prostra con un Corano e un fucile d’assalto. Il video in questione era molto atteso, perché mostra l’offensiva cominciata a gennaio contro le infrastrutture del greggio nel Golfo di Sidra e anche perché è intitolato alla memoria del comandante iracheno ucciso da francesi e americani, che aveva accesso diretto al capo di tutto il gruppo, Abu Bakr al Baghdadi. Uno dei leit motiv dello Stato islamico è che l’accoglienza è aperta a tutti, non importa il colore della pelle. Anche se, come nota l’esperto francese Romain Caillet, nelle scene di fustigazione in piazza a Sirte il gruppo fa in modo che gli arabi frustino condannati arabi e i neri frustino condannati neri, in modo da non suscitare malcontenti – una vena razzista contro i neri serpeggia in alcune parti del mondo arabo e in Libia. Un altro video recente mostra alcuni somali dello Stato islamico in Libia chiedere ai combattenti di al Shabaab, il gruppo di al Qaida in Somalia, di disertare e di unirsi a loro.
Questa strategia di reclutamento va a coprire una delle debolezze maggiori dello Stato islamico in Libia. I libici, per carattere nazionale, hanno una forte ritrosia a unirsi sotto il comando di stranieri. Lo Stato islamico conta un gran numero di libici, ma non bastano. Secondo un rapporto pubblicato a novembre da un panel di esperti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, il gruppo conta soltanto tremila uomini, quindi meno di molti battaglioni reduci della rivoluzione del 2011, e questo vanifica la sua naturale ambizione – quella di diventare rilevante come in Iraq e in Siria. L’intelligence italiana, che è considerata ferrata su questo dossier, conferma questa cifra. In questi ultimi mesi tuttavia ci potrebbero essere stati dei cambiamenti, perché le fonti dell’intelligence americana dicono al New York Times che il numero è più che raddoppiato ed è arrivato a 6.500. Anche se, come scrive il Washington Post che ha parlato con alcuni prigionieri del gruppo a Tripoli, i nuovi arrivati sono di qualità scadente: non portano talenti particolari, non obbediscono, si arruolano perché spinti da motivi venali, come la possibilità di saccheggio e di arricchimento.