Primarie col ciuffo
Il Gop ora piange la battaglia contro Trump che non ha combattuto
New York. Quel che resta del Partito repubblicano s’è svegliato mercoledì mattina con i postumi di una colossale sbronza, come spesso capita a Las Vegas, ma con la lucida percezione che ora Donald Trump è a tanto così dalla conquista della nomination repubblicana. Nei caucus del Nevada ha sconfessato la tesi del “ceiling”, il limite fisiologico, strutturale del suo elettorato, guadagnando anche il sostegno degli ispanici, che lo hanno preferito a due candidati con sangue cubano, Marco Rubio e Ted Cruz, uno dei quali ha pure vissuto per un periodo a Las Vegas. Trump vince quando l’affluenza è alta e quando è bassa, vince negli stati su cui ha lavorato con solerzia e in quelli che ha soltanto lambito, conquista il voto evangelico e quello secolarizzato.
Al Super Tuesday della settimana prossima i sondaggi lo danno in vantaggio quasi ovunque, lui punta addirittura a conquistare il Texas, per ottenere il ricco pacchetto di delegati che lo stato offre, ma soprattutto per umiliare definitivamente Cruz, il senatore che gioca in casa. Due settimane più tardi è il turno della Florida di Rubio e dell’Ohio di John Kasich. Jonah Goldberg, columnist di quella National Review che ha guidato l’attacco conservatore contro Trump, scrive che la virtuale conquista della nomination è “una notizia terribile e deprimente da contemplare. Ma le possibilità terribili non diventano meno terribili se rifiutiamo di contemplarle. Al contrario, hanno più possibilità di diventarlo”. Così, a forza di rifiutarsi di contemplare Trump, il Partito repubblicano ufficiale s’è inflitto poco contemplative pugnalate.
Anche ora che molti osservano quello che si poteva fare e non si è fatto per offrire un’alternativa a Trump, ci sono ben pochi segnali che qualcosa si muova. Dei quattro candidati che formano l’ipotetica coalizione anti Trump, nessuno ha fatto cenno di volersi fare da parte, e soltanto uno di loro fin qui ha vinto uno stato, segno che tale coalizione è, appunto, puramente ipotetica. Nessun candidato repubblicano ha davvero aggredito Trump. I Super Pac repubblicani – gli organi che raccolgono fondi e contribuiscono alle campagne – hanno dedicato soltanto il 4 per cento dei 215 milioni di dollari spesi finora a contrastare Trump. Se Cruz ha ingaggiato una battaglia dialettica con il frontrunner, Rubio si è diligentemente rifiutato, preferendo altri bersagli. C’è una certa ironia nel fatto che Rick Tyler, capo della comunicazione di Cruz, sia stato licenziato per aver rilanciato una calunnia contro Rubio, non contro il dominatore dell’immaginario repubblicano e della conta dei delegati. Anche Jeb Bush, che ha condotto una campagna disastrosa e ben finanziata, nelle ultime due competizioni prima del ritiro ha speso molto di più per attaccare il pupillo traditore che l’uomo che vuole “make America great again” sulla pelle del Gop. Qualcuno ora accusa addirittura il capo del Partito repubblicano, Reince Priebus, per aver cambiato regole e calendario delle primarie, rese più brevi per evitare la lunga e dolorosa lotta intestina di quattro anni fa, cosa che avrebbe favorito in modo eccessivo la campagna sferzante e urlata di Trump.
[**Video_box_2**]L’impressione, piuttosto, è che il Gop stia perdendo una battaglia che non ha mai voluto combattere, come se fin qui avesse erroneamente considerato Trump un meccanismo che si spegne da sé. Ci sono diverse tesi che spiegano questo atteggiamento. Una è condensata nel libro “The Party Decides”, studio uscito nel 2008 dal rispettatissimo dipartimento di Scienze politiche della University of Chicago. L’idea del politologo Marty Cohen e dei suoi colleghi è che per quanto il processo di selezione sia aperto all’ingresso di outsider che cambiano le regole, alla fine sono i partiti che decidono i candidati. L’establishment, nel senso della struttura politica, di potere, ha l’ultima parola. E’ possibile che il pregiudizio intorno alla preminenza del partito che quello studio sintetizza abbia bloccato o fatalmente ritardato l’iniziativa degli avversari di Trump. Un’altra spiegazione, più contorta ma non del tutto peregrina, l’ha formulata Jim Tankersley sul Washington Post: quello che sta succedendo fra i repubblicani, scrive, non deriva da “quello che gli economisti chiamano il problema dell’azione collettiva”, dove diversi attori che potrebbero unirsi per un obiettivo comune non lo fanno per via di egoismi di quart’ordine, e infine il risultato danneggia tutti. Piuttosto si tratta di un calcolo lucido. Rubio e Cruz sono giovani e ambiziosi, avranno altre occasioni per correre alla presidenza, e sanno bene che Trump è il candidato più debole alle elezioni generali. Una vittoria democratica a novembre significa una campagna delle primarie fra quattro anni, non fra otto. Se si accetta il calcolo come premessa, si capisce che per Rubio o Cruz è svantaggioso attaccare Trump, mentre il primo obiettivo è danneggiare l’altro rappresentante dell’establishment che a novembre avrebbe più possibilità di vincere, cioè di allontanare il sogno della presidenza dell’altro. Ragionamento troppo cervellotico o cinico? Forse. Ma sta di fatto che quel che resta del Partito repubblicano oggi piange sul latte che non ha mai versato.