Il governo Sánchez-Rivera ha già un problema con la matematica
Roma. In campagna elettorale se n’erano dette di tutti i colori. “Machista”, “Peggio del Pp”, aveva detto Pedro Sánchez. “Leader “debole” e “devastato”, alfiere della “vecchia politica”, aveva twittato Albert Rivera, ripetendo ogni giorno il suo tormentone: “Al governo o all’opposizione, ma mai con questi partiti marci”. Ieri invece sorridevano entrambi, il leader del Partito socialista e il leader di Ciudadanos, entrambi con un blazer blu brillante, cravatta rossa il socialista e cravatta blu il centrista, mentre firmavano un patto programmatico per la formazione del prossimo governo spagnolo. Lo hanno chiamato “Accordo per un governo riformista e di progresso”, è un pdf di 66 pagine in cui i due partiti spagnoli hanno messo insieme i loro rispettivi programmi, spuntato le parti più estreme (per i socialisti la cancellazione completa della riforma del lavoro voluta dal governo del Partito popolare di Mariano Rajoy, per Ciudadanos la creazione di un modello unico di contratto valido per tutto il paese) e ottenuto come risultato un programma di lievi tinte socialdemocratiche, in cui si propone di semplificare il mercato del lavoro, si cerca di invertire solo una parte delle misure di austerity imposte dai popolari, si chiede una riforma lampo della Costituzione. Sánchez rinuncia alle roboanti promesse di ripristinare il welfare e abbattere l’austerity, dice che “abbiamo ceduto per far vincere tutti gli spagnoli”, e ottiene così il sostegno dei 40 deputati di Ciudadanos nel voto di fiducia che la settimana prossima dovrebbe decidere le sue sorti come premier. Come ha scritto Tobias Buck sul Financial Times, il leader socialista ha giocato bene una mano debolissima.
Dopo aver ricevuto il mandato per formare un governo da re Felipe, rifiutato due volte da Rajoy, ha messo ordine in una situazione frammentata e riottosa sia nel nuovo Parlamento sia nel suo partito. Strattonato a sinistra da Podemos, il cui leader Iglesias è arrivato a pretendere per sé la vicepremiership, e a destra da tutti gli altri, definito “lightweight” niente meno che dall’Economist, la sua autorevolezza minata dall’interno dalle critiche dei baroni socialisti, Sánchez è riuscito a gettare le basi per un governo che non preoccupi i partner europei e non terrorizzi i mercati internazionali. Ma il trionfalismo degli annunci si sgonfia quando si guarda ai numeri. E’ Sánchez il primo a saperlo. Ieri subito dopo aver stretto la mano a Rivera ha detto che spera “di avere l’onore di condividere (questo programma di governo) con altre forze politiche”.
I socialisti e Ciudadanos insieme sono ben lontani dall’avere una maggioranza in Parlamento. I due partiti (insieme al voto dell’unico deputato del partito locale delle Canarie) contano 131 voti, distanti dai 176 necessari per avere la maggioranza assoluta e ottenere la fiducia alla prima votazione (il 3 marzo) ma anche troppo pochi per la seconda votazione (il 5 marzo), quando per passare basterebbe al governo Sánchez che i voti favorevoli siano di più di quelli contrari. Attualmente, in Parlamento i contrari sicuri al nuovo governo sono ben 209, una differenza insormontabile. Le “altre forze politiche” invocate dal leader socialista sono dunque indispensabili, se non con il sostegno diretto con un’astensione che consenta un governo di minoranza. Il problema è che già da tempo si sono dette indisponibili.
La rabbia degli esclusi
Dopo l’annuncio dell’accordo, Sánchez e Rivera si sono distribuiti i compiti. Il socialista è andato a parlare con la sinistra estrema e Podemos, il centrista ha cercato di intercedere presso il Partito popolare. Il nuovo governo ha bisogno del sostegno, o quanto meno dell’astensione di una delle due formazioni per ottenere la fiducia, ma entrambi i leader si sono trovati davanti delle porte chiuse. Iñigo Errejón, numero due di Podemos, ha detto ieri che il nuovo programma è “pensato per l’Ibex”, la Borsa spagnola, e ha annunciato l’abbandono da ogni tavolo negoziale. Gli antisistema erano stati i primi, appena dopo le elezioni, ad avanzare pretese onerose a Sánchez, e nel nuovo accordo nessuna di queste è stata presa in considerazione, a partire dalla richiesta di un referendum sull’indipendenza della Catalogna: il programma social-ciudadano sottolinea al contrario l’importanza dell’unità nazionale.
[**Video_box_2**]Per i popolari ci ha pensato invece lo stesso Rajoy a dire in un’intervista che il nuovo accordo non andrà da nessuna parte. Dopo due mesi di attacchi sistematici da parte di Sánchez (e di umiliazioni personali: l’assemblea socialista della sua città natale, Pontevedra in Galizia, lo ha definito “persona non grata”, non era successo nemmeno con Hitler), il premier facente funzioni ormai mira solo a elezioni anticipate, come ha detto la settimana scorsa al collega inglese David Cameron durante una pausa del vertice europeo di Bruxelles in una conversazione intercettata dalle telecamere (data pronosticata: 26 giugno).
Ma i numeri tradiscono Sánchez anche oltre il voto di fiducia. Per ottenere il sostegno di Ciudadanos il socialista ha promesso una riforma della Costituzione da approvare nei primissimi mesi di governo, che preveda tra le altre cose la riduzione dei mandati consecutivi per il premier, la facilitazione delle leggi di iniziativa popolare, la soppressione degli enti governativi delle province. Ma come ha notato il Mundo, per riformare la Costituzione serve una maggioranza tale da rendere indispensabile il voto del Partito popolare. Il quale, si diceva, è livido nei confronti di Sánchez.