In Libia sono già partiti
Italia fedele al piano lento delle Nazioni Unite, America così così, la Francia si prende Bengasi. Come nell’intervento 2011, ci sono rivalità rischiose fra gli alleati. I miliziani bombardati da Washington a Sabratha organizzavano un grande assalto a una cittadina in Tunisia.
Da una parte il governo italiano prova a trattenere gli alleati, Francia e America, dall’intervenire troppo in anticipo in Libia, e ha scarso successo. Dall’altra il segretario americano alla Difesa, Ashton Carter, prova a rassicurare e dice che Washington appoggia senz’altro la volontà italiana di prendere il comando di un’operazione militare che comincerà soltanto dopo l’invito formale da parte di un governo libico, di unità nazionale e funzionante – che però ancora non si vede. I segni della guerra invece già si vedono e le operazioni sono partite. Lunedì la portaerei francese Charles de Gaulle ha lasciato il Golfo Persico dopo due mesi e 370 voli di attacco e di ricognizione in Iraq contro lo Stato islamico. Gli esperti si aspettano che si sposti davanti alla Libia per una missione uguale – lo scrive per esempio il blog militare Secret Défense (“Le Charles-de-Gaulle fait route vers la Libye”). Il 19 dicembre, pochi giorni dopo il massacro di Parigi, i jet della portaerei passarono in ricognizione sopra Sirte, capitale dello Stato islamico in Libia. Ora torna, partecipa a un’esercitazione con gli egiziani, passa davanti alla costa di Sirte – nelle prossime settimane – e arriva in Francia alla fine di marzo, per poi riprendere il mare. Furono gli aerei decollati dalla Charles de Gaulle ad attaccare Bengasi nel 2011 e quindi a cominciare l’intervento militare contro Gheddafi.
Quella in Libia per ora è una campagna a bassa intensità e mista, fazioni locali e militari occidentali assieme. Nulla a che vedere con il 2011, gli attacchi aerei a ondate e gli addestratori sul terreno, ma è in accelerazione progressiva. Domenica un attacco da parte di aerei non identificati ha colpito un convoglio dello Stato islamico a Bani Walid, a sud – si sprecano le ipotesi sui bersagli: erano uomini dello Stato islamico in fuga da Sabratha verso Sirte, erano altri che lasciavano Sirte per sottrarsi a imminenti raid aerei. Una non meglio specificata “fonte della sicurezza” dice al sito libico al Wasat che a bombardare sono stati aerei francesi. Fonti del Foglio a Misurata avvertono ogni volta che si alza un jet da guerra dall’aeroporto locale e spesso nel giro di poche ore giunge la conferma di qualche obiettivo bombardato nei paraggi (lunedì, una barca davanti al porto di Sirte). Forse perché, come ha scritto domenica il Sunday Telegraph, forze speciali inglesi sono a Misurata, la città libica più vicina a Sirte, per organizzare “cellule anti Stato islamico” e quindi potrebbero passare informazioni sugli obiettivi. Venerdì, un video di pochi secondi messo su internet dallo Stato islamico ha mostrato la sagoma di un aereo spia della Marina americana, un Ep-3, volare sopra Bengasi assieme a un elicottero delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar. La settimana scorsa c’è stata una sequenza di rivelazioni su una squadra delle Forze speciali francesi che a Bengasi partecipa all’offensiva dalla parte delle forze di Haftar, che stanno cacciando indietro il fronte tenuto dallo Stato islamico – ma ieri ha subìto una battuta d’arresto, e i soldati abbandonando un pezzo del fronte hanno lasciato indietro casse di munizioni arrivate dall’Egitto, che è un altro interlocutore silenzioso ma attivo. Francesi, inglesi e americani hanno allestito un comando unificato nel vicino aeroporto militare di Benina. Ancora: venerdì 19 due aerei americani hanno compiuto un raid aereo contro una villa di Sabratha occupata dallo Stato islamico, volevano colpire un capo tunisino, Noureddin Chouchane, che però forse è stato ucciso pochi giorni dopo, in scontri con i locali. Le bombe hanno ucciso due ostaggi serbi sequestrati a novembre sulla strada litoranea. Anche in questo caso potrebbe esserci un ruolo dei francesi, perché il Monde ha rivelato che a novembre, quando si trattò di uccidere nel sonno il capo di tutto lo Stato islamico in Libia, l’emiro iracheno al Qahtani, le informazioni per il raid aereo partirono da Parigi – gli F-15 partirono invece dalla base Raf di Lakenheat, nel Suffolk inglese, in una continua triangolazione di uomini e mezzi in cui l’Italia per ora non figura.
Quattro immagini prese dall’ultimo video pubblicato a gennaio dallo Stato islamico a Bengasi. Ora il generale libico Khalifa Haftar avanza in città, con l’aiuto soprattutto dei francesi, e le Nazioni Unite non sono affatto contente
Questo modello di intervento in Libia segue, in scala ridotta, la tattica usata dai russi in Ucraina e Siria. Si interviene senza annunciare, si mandano Forze speciali, informazioni, aerei, si ottengono vantaggi strategici e soltanto più tardi, se è il caso, si daranno spiegazioni. Dal punto di vista formale è difficile muovere dei rimproveri a questi alleati così precoci perché si portano avanti con il lavoro. La cosiddetta Forza di deterrenza di Tripoli ha catturato uno dei sopravvissuti al raid aereo americano su Sabratha e ha messo su internet la sua confessione: lo Stato islamico si stava addestrando lì, a un’ora di macchina dal confine, per attaccare con duecento uomini Ben Guardane, una città minore della Tunisia a poca distanza. Se non ci fosse stato il bombardamento, è possibile pensare che ci sarebbe stato un assalto in stile Iraq o Siria contro i palazzi del governo (sede municipale, polizia) di un posto che pur non essendo la capitale Tunisi, sorvegliatissima, o un resort turistico, era per ora scampato agli atti di guerra. Come si fa a dire: il bombardamento è arrivato troppo presto? Anche Carter, nello stesso discorso in cui ha detto di sostenere l’Italia, ha spiegato che gli americani procedono in equilibrio tra la necessità di aspettare la politica libica e l’urgenza di intervenire contro lo Stato islamico. Un discorso simile vale per i francesi a Bengasi: stanno cooperando allo sforzo per sradicare lo Stato islamico dai quartieri sud della città con un’impronta militare leggerissima, e dopo anni di immobilismo e inerzia in Iraq e Siria è arduo sostenere che non dovrebbero farlo.
Un aereo spia americano in volo sopra Bengasi, fotografato dallo Stato islamico (diffusa ieri)
Scrive però il sito specializzato Maghreb Confidential che l’improvvisa avanzata delle truppe di Khalifa Haftar sul fronte di Bengasi non ha fatto piacere all’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Kobler, che martedì 23 febbraio parlando a porte chiuse nel palazzo di Justius Lipsius, sede del Comitato per la sicurezza dell’Unione europea, è stato molto critico a proposito dell’offensiva. La vittoria irruente di Haftar contro gli islamisti che da un anno resistono trincerati vicino al porto rischia di rendere superfluo e obsoleto il piano per creare un esercito nazionale legato al governo di Fayez al Serraj e sponsorizzato dalle Nazioni Unite. Haftar è detestato da metà paese e la sua cacciata, o la sua nomina a ministro della Difesa o capo dell’esercito, sono il punto più controverso dell’accordo per il governo di unità nazionale. Se lui resta, l’accordo è bloccato – o almeno, per ora è stato così. Ma con quale coraggio ora si può chiedere al generale che sta battendo lo Stato islamico a Bengasi di mollare il suo posto per fare spazio a un governo che per ora esiste soltanto in forma gassosa, sparpagliato in alcuni hotel del Marocco e della Tunisia? E questa impasse è propiziata da squadre speciali dell’esercito francese, che ora intervengono a fianco del generale. Si capisce perché Kobler a Bruxelles, dal suo punto di vista, si lamenti di una sconfitta dello Stato islamico. Nemmeno gli americani hanno atteso la nascita ufficiale del governo Serraj e hanno bombardato a Tripoli. Dettaglio impagabile: hanno detto di avere avvertito in anticipo il governo libico, ma senza precisare quale, se quello non insediato sponsorizzato dalle Nazioni Unite, quello di Tripoli per competenza territoriale o quello di Tobruk.
Quello che succede a Bengasi non piace per nulla a Tripoli e Misurata. Le due città libiche non parteggiano con lo Stato islamico e hanno le due forze che hanno provato sul campo di essere le più pericolose contro i baghdadisti – la Forza di deterrenza e il Battaglione 166. Tuttavia, sono contro Haftar, che considerano un Gheddafi di ritorno, vissuto per vent’anni in esilio in Virginia sotto la protezione degli americani e ora tornato dopo la rivoluzione a impersonare il ruolo dell’uomo forte, con appoggio pieno da parte di un altro uomo forte, il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi.
In questa contrapposizione che non è ancora risolta, gli inglesi e gli americani stanno giocando su entrambi i fronti. Gli americani si fanno vedere nell’ovest controllato da Tripoli e a Misurata e gli inglesi pure. Forse fanno affidamento sul fatto che tutto si comporrà, ma di fatto stanno alleandosi con due fazioni diverse che si sono combattute a lungo. A novembre, alcuni combattenti di Ansar al Sharia feriti e a riposo in alcuni hotel di Misurata hanno spiegato al Foglio che per loro la città è una retrovia ospitale e che quasi ogni notte partono barche cariche di uomini e rifornimenti dirette verso il porto di Bengasi, per sostenere il fronte anti Haftar – un gruppo è escluso, lo Stato islamico, c’è soltanto una contiguità sul fronte.
[**Video_box_2**]L’Italia sta con il piano delle Nazioni Unite, o per meglio dire, si è attaccata a esso – con i ritardi e le incertezze del caso, ma anche con una visione meno improvvisata e più a lungo termine. Per mesi i giornali hanno parlato di questo disegno per rimettere assieme la Libia e poi, in una fase due, aprire una campagna militare contro lo Stato islamico che si sta creando una sua base nel paese. Prima la Libia risolve le sue differenze interne e si dota di un governo funzionante, prima quel governo inviterà in modo formale la comunità internazionale e chiederà appoggio per le operazioni militari contro i terroristi. L’idea è che in questo modo non ci sarà un’invasione di soldati stranieri che attira, eccita e rafforza gli estremisti, ma ci sarà piuttosto un rapporto di collaborazione, come a dire: fate voi, la missione ha soltanto un ruolo concordato di supporto. Il ministro italiano della Difesa, Roberta Pinotti, ha detto che un’occupazione militare della Libia – tipo Iraq 2003 – sarebbe “impensabile”.
“Io non ho particolari fremiti interventisti – ha detto ieri il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, alle Nazioni Unite – La situazione è abbastanza chiara e le ultime affermazioni fatte dal segretario alla Difesa americano, Ashton Carter, sono molto chiare, hanno ribadito quanto sosteniamo”. Gentiloni a New York ha anche incontrato Martin Kobler e poi ha sottolineato due punti: l’Italia è pronta, ma la prima condizione è la formazione di un governo di accordo nazionale e la richiesta di questo governo. Il messaggio è: si segue ancora il piano originale.
Il disegno si sta materializzando e ieri per esempio una delegazione di parlamentari di Tobruk è arrivata a Tripoli per negoziare – dove tuttavia il primo ministro teorico, Fayez al Serraj, per ora non può nemmeno atterrare perché non riceverebbe l’autorizzazione. Ma il disegno si sta materializzando alla moviola e gli altri governi occidentali hanno la chance per dire “Non si può aspettare oltre” e portarsi in una posizione di vantaggio, perché all’interno della Coalizione ci sono interessi nazionali e divergenti.
Mancò poco nel 2011 che i paesi alleati radessero al suolo gli impianti dell’italiana Eni in Libia. Erano i giorni delle operazioni contro Gheddafi, quei terminal erano dopotutto un asset prezioso nelle mani del dittatore libico e in teoria avrebbero potuto anche fare parte della lista dei bersagli, ma è facile leggere un malizioso eccesso di zelo: senza impianti niente più contratti, un rivale pericoloso del dopo Gheddafi sarebbe stato escluso in partenza dalla gara della ricostruzione. Gli italiani si sarebbero trovati di fronte a un fait accompli. Non accadde, ma il rischio corso rivela un clima di rivalità all’interno della Coalizione, perché almeno tre governi, Parigi, Londra e Roma, erano interessati allo sterminato business energetico della Libia. La Francia fu la prima a riconoscere il governo di transizione dei ribelli, a marzo, la prima a riaprire l’ambasciata a Tripoli ad agosto e la prima a rimettere in funzione gli impianti del greggio a settembre. Gli italiani seguivano di pochi giorni. Le cose poi andarono in modo diverso da come Parigi sperava e il mercato dell’energia libica non cambiò rispetto a prima della guerra, salvo poi chiudersi quasi del tutto per colpa della guerra civile.
L’anno scorso un articolo al veleno del Wall Street Journal chiedeva: com’è possibile che tutti si siano dovuti ritirare dalla Libia per ragioni di sicurezza, tranne Eni? La risposta, spiegava il giornale, era che la compagnia italiana aveva creato una rete di alleanze locali con le milizie anche islamiste della zona, che garantivano la sicurezza. Una fonte libica appena tornata dall’impianto Eni di Mellita, sulla costa a ovest di Tripoli, dice al Foglio che in questi giorni le forze di sicurezza di Zuwara hanno rilevato le operazioni di sorveglianza attorno al sito. Zuwara è una piccola città a metà strada tra la capitale e il confine tunisino, controllata dalla minoranza amazigh (berbera) che ha preso una posizione forte contro lo Stato islamico e contro gli scafisti. Ha uno dei governi locali più forti e più indipendenti dell’area – tanto che a novembre scorso ridevano della lettera di accredito rilasciata dall’ufficio media del governo di Tripoli per chiedere interviste e fare lavoro giornalistico in Libia, “qui non serve”. Per anni ha combattuto una guerriglia a intermittenza contro gli stessi gruppi islamsiti che hanno coperto e appoggiato l’arrivo dello Stato islamico a Sabratha.