Il leader di Podemos, Pablo Iglesias con il pugno alzato nel Parlamento spagnolo (LaPresse)

Benvenuti nel talent show del voto spagnolo, che in tv è meglio di MasterChef

Guido De Franceschi
Tra “Borgen” e un reality di cucina, il dibattito per la fiducia al governo porta in diretta i conciliaboli del potere. Prima puntata mercoledì, la seconda oggi, poi un’altra stagione.

Due giorni fa il Parlamento spagnolo ha inaugurato un nuovo format televisivo, capace di annichilire in un colpo solo ogni esercizio di dietrologia giornalistica e la strepitosa serie tv danese “Borgen”: la trattativa in diretta per la formazione (quasi impossibile) di un governo di coalizione. In altre parole, le segrete stanze a favore di telecamera. Ovverosia, un conclave trasformato in un talent show.

 

La politica spagnola compie un salto nel futuro. Eppure, si aggrappa disperatamente al passato. L’avveniristica seduta di investitura del Parlamento spagnolo, che mercoledì (come previsto) non ha premiato con un voto favorevole il candidato socialista alla premiership Pedro Sánchez, è stata di fatto presieduta da Adolfo Suárez, defunto due anni fa e allontanatosi da più di un decennio dalla vita pubblica, a causa di una forma particolarmente aggressiva di Alzheimer. No, la Spagna non si è avvitata in un vortice nordcoreano che attribuisce cariche eterne postmortem ai suoi leader più prestigiosi. E, sì, il neopresidente del Congreso de los Diputados, il socialista basco Patxi López, si è dimostrato decisamente autorevole nell’incarico appena assunto. Eppure, se si dovesse riassumere in una sola parola il dibattito in Aula di mercoledì, questa parola sarebbe: “Suárez”.

 

D’altra parte, già mezz’ora dopo la diffusione dei risultati definitivi delle elezioni politiche del 20 dicembre scorso, che hanno sbriciolato il tradizionale bipartitismo spagnolo, si era capito che le negoziazioni per la formazione di un governo, un inedito per la democrazia spagnola abituata agli esecutivi monocolore, sarebbero state molto complicate. In un esercizio di autoironia, accollata per comodità mediatica alla caricaturizzazione delle altrui abitudini, i giornali spagnoli avevano da subito parlato di un Parlamento “italiano”. Ma l’approccio naïf alle trattative per la formazione di un governo si è manifestato in tutta la sua evidenza soltanto nell’effervescente dibattito parlamentare di mercoledì , che ha mostrato in diretta alla nazione il dietro-le-quinte della politique politicienne.

 

Proprio in questa occasione, forse con un valore apotropaico e sicuramente come suggello dell’inadeguatezza della politica spagnola in assenza di un partito capace di esprimere in proprio una maggioranza (o qualcosa che le assomigli), nell’emiciclo sono risuonati ossessivamente i riferimenti a Suárez, l’eroe della transizione dal franchismo alla democrazia e l’ultimo politico spagnolo che, alla fine degli anni Settanta, abbia dovuto misurarsi con la tessitura di accordi politici a livello nazionale. Accordi, in quel caso, addirittura capaci di far collaborare alla costruzione di una nuova Spagna i vecchi arnesi del franchismo (lui stesso, ad esempio), il cattolicesimo critico nei confronti del Generalísimo, i socialisti e i comunisti. Il suo nome si è affacciato persino negli interventi di quei politici che con il pantheon del centrodestra e, soprattutto, con una mitopoietica nazionale condivisa non vogliono avere niente a che fare, come gli hardliner dell’indipendentismo catalano.

 

Prequel: dal voto del dicembre scorso è emerso un Parlamento frantumato. Il Partito popolare (Pp) di centrodestra, guidato dal premier uscente Mariano Rajoy, ha vinto le elezioni (nel senso che è arrivato primo), ma ha perso moltissimi voti e moltissimi seggi. Il Partito socialista (Psoe) guidato da Pedro Sánchez, al suo battesimo in prima linea, è arrivato secondo, ma ha ottenuto le percentuali di consenso più modeste della sua storia. E hanno fatto il loro esordio in Parlamento sia Podemos, il movimento degli indignados antisistema (ma non troppo) che riconoscono come loro leader Pablo Iglesias, sia Ciudadanos (C’s), il partito di matrice catalana anti indipendentista guidato da Albert Rivera. Seguendo la linea di faglia destra-sinistra non è possibile alcuna maggioranza, né sommando i seggi del Pp con quelli di C’s, né sommando i seggi del Psoe con quelli di Podemos. Rajoy, all’indomani delle elezioni, ha chiesto a Sánchez: “Vuoi appoggiare un governo di Grande coalizione, guidato da me?”. Risposta: “No”.

 

Il re Felipe VI, alla sua prima esperienza da mazziere, si è trovato in difficoltà nel distribuire le carte. Per prima cosa, da tradizione, ha interpellato Rajoy, il capo del partito più votato, che, conscio di non avere appoggi in Parlamento al di là del Pp, ha scelto di passare la mano. Quindi Felipe si è rivolto al secondo arrivato: Sánchez.

 

In questo momento, si sono aperti i casting del programma “Come cucinare un governo spagnolo di coalizione”. Già nei bootcamp, l’inesperto cuoco Sánchez, forse per accrescere la sua modesta autorevolezza e ormai affezionatosi a un tormentone (“Cambio!”), ha buttato sprezzante nella spazzatura il piatto proposto dell’anziano chef stellato Rajoy: “La tua è la solita zuppa de toda la vida, non c’è nessun elemento innovativo”. D’altra parte, al pubblico piacciono le novità. Dopo aver snobbato Rajoy, Sánchez, in cerca di necessarie alleanze ai fornelli, dirige il suo interesse verso un altro concorrente: Pablo Iglesias, della squadra Podemos. Ma ben presto Sánchez si accorge che la brigata di cucina di Iglesias, che non disdegna la collaborazione con cuochi indipendentisti, non riesce mai a completare un menu perché i fautori del diritto al secessionismo, troppo inclini al flambé, finiscono sempre per bruciare qualche pietanza. Intanto, il giovane e ottimista concorrente Albert Rivera si dimostra assai talentuoso nella confezione di piatti “corretti”. La sua piccola brigata indossa grembiuli arancioni (“naranja” in spagnolo) e per questo, apertamente e davanti alle telecamere, i cuochi di Podemos parlano spesso di “naranja mecánica” (arancia meccanica), per segnalare come la creatività culinaria degli avversari sia un po’ legnosa: controllatissima, opportunista e, in definitiva, anodina. Eppure, i secchioni della naranja mecánica fanno un’ottima figura nella prima puntata. Il conduttore, chef Felipe VI, assiste silenzioso.

 

E qui usciamo di metafora e torniamo alla politica: il leader socialista, in cerca di una maggioranza acrobatica, annuncia urbi et orbi un accordo di programma in 200 (sì, duecento!) punti, con i Ciudadanos di Albert Rivera. Un accordo che vale 130 seggi, 90 del Psoe più 40 di C’s, a fronte di una maggioranza necessaria di 176. Come deve essere valutato l’annuncio di questo accordo parziale da parte di chi sta cercando una più ampia maggioranza acrobatica? E’ un errore da principianti (come si sentiranno gli altri interlocutori davanti a un patto già stipulato)? Oppure è un colpo di genio (“Ciudadanos ha fatto un patto, dobbiamo cedere qualcosa anche noi per non essere percepiti come degli irresponsabili”)?

 

Da qui prende abbrivio la seconda puntata di “Come cucinare un governo spagnolo di coalizione”, che è andata in onda in Parlamento mercoledì scorso. Il concorrente Sánchez si è presentato con la consapevolezza di non avere i numeri necessari. E, in diretta, è andato in scena il tentativo di far assaggiare un piatto che può essere cotto soltanto rivolgendosi al forno di Podemos oppure a quello, sul lato opposto della cucina, gestito dal Partito popolare. Iglesias ha deciso di tornare all’antico: ha interpretato il ruolo dell’indignado irriducibile senza se e senza ma e ha continuato a sostenere che Sánchez avrebbe dovuto, e ancora dovrebbe, tentare la strada del ristorante di sinistra, eliminando dalla carta gli ingredienti neoliberali allogeni portati dai cuochi di Ciudadanos. La stessa cosa, la necessità di un “governo delle sinistre”, è stata sostenuta dai leader di Compromís, di En Marea e di En Comú Podem (cioè i franchising politici di Podemos nella Comunidad Valenciana, in Galizia e in Catalogna), nonché dal leader dei postcomunisti di Izquierda Unida, Alberto Garzón. Assalito dal principio di realtà, il cuoco Sánchez ha dovuto ripetere per ben cinque volte: “Mi dispiace, mi piacerebbe molto, ma, tutti insieme, a sinistra abbiamo 161 seggi contro i 163 del centrodestra”.

 

[**Video_box_2**]Facendo ripetuti calcoli aritmetici, Sánchez ha consegnato alla registrazione audio della diretta tv quello che, alle nostre latitudini, è appannaggio dei teleobiettivi dei fotoreporter più rapaci, che cercano di inquadrare i foglietti degli sherpa parlamentari che conteggiano i “sì” e i “no”, e dei taccuini dei giornalisti che percorrono come mezzofondisti il Transatlantico in cerca di indiscrezioni. Senza contare che i 163 seggi del centrodestra, così candidamente conteggiati coram populo da Sánchez, coincidono con la somma dei parlamentari del Pp e dei suoi (suoi di Sánchez, si intende) alleati di acciaio (o di latta?) di Ciudadanos. Intanto, mentre nel corso del godibilissimo dibattito parlamentare volano parole grossissime in un tutti contro tutti senza sconti per nessuno, gli alleati Sánchez e Rivera si spartiscono i compiti. Il socialista – non in conciliaboli privati, bensì in diretta tv – si rivolge esclusivamente alle varie anime di Podemos con accorati appelli e calcoli proiettati sugli altrui elettori (i vostri sostenitori non capiranno mai la scelta di votare “no” alla mia investitura insieme con Rajoy, quando c’era la possibilità di mandarlo all’opposizione; ok, non vi piacciono tutti i duecento punti che abbiamo stilato con Ciudadanos, ma magari possiamo accordarci anche con voi su 180. Su 150? Dai, la peggiore delle nostre proposte è sempre meglio di un altro governo dei popolari!).

 

Il ciudadano Rivera – anche lui non in conciliaboli privati, bensì in diretta tv – si rivolge esclusivamente al Partito popolare (con quali voti, vi domandate, pensiamo di fare le riforme costituzionali contenute nei 200 punti che abbiamo pattuito con i socialisti? Ma con i vostri! Fate fare un passo indietro a Rajoy e troviamo un accordo. Dai, non vorrete mica Podemos al governo!). Intanto Iglesias aggredisce tutti con la recuperata verve del rivoluzionario antitutto. E anche Rajoy ha ripreso quota oratoria. Dopo il “gran rifiuto” opposto al re che gli proponeva di provare a formare un governo, il leader popolare era diventato ancora più laconico del consueto. Ormai si fermava poco più in là della solita introduzione di ogni sua frase, cioè un “pues…”, traducibile con un “beh…” (non è necessario riportare le successive parole: il portato comunicativo del premier uscente, che rimane un politico del secolo Decimonono più che un efficace utente di Twitter, è tutto nei tre puntini di sospensione).
Ritrovatosi di fatto all’opposizione, nel dibattito parlamentare Rajoy si è esibito in una performance imprevedibile. Sarcastico, graffiante e molto loquace, approfittando della libertà concessa dal suo ruolo di alfiere della pars destruens del dibattito, il leader del Pp ha mescolato frasi rubate ai film sparatutto di Hollywood (“Signor Sánchez, quale parte della parola ‘no’ non ha capito?”) a una sequela di espressioni desuete che hanno fatto la felicità dei giornali in cerca di curiosità lessicali per articoli di colore.
La seconda puntata di “Come cucinare un governo spagnolo di coalizione” si è chiusa con un atteso nulla di fatto: tutti gli attori hanno recitato bene, ciascuno con le sue battute da mattatore. Il voto – serviva la maggioranza assoluta di 176 – si è chiuso con 130 “sì” a Sánchez, 219 “no” e un’astensione. La terza puntata della prima stagione della miniserie andrà in onda oggi (basterà la maggioranza semplice) e, probabilmente, non riserverà sorprese, per mantenere alta l’attesa in vista della seconda stagione. Per ora l’attore che interpreta Sánchez mantiene il ruolo del protagonista: quello che ci ha provato e che ci proverà ancora. L’attore che interpreta Rajoy, la vecchia volpe che gli sceneggiatori vogliono mostrare come spacciata, è un nome di cartello e sarebbe un peccato farlo uscire di scena senza un combattimento finale con i suoi antagonisti. L’attore che interpreta Iglesias, cui il regista ha chiesto a più riprese di recitare un po’ sopra le righe, piace ancora molto al pubblico. L’attore che interpreta Rivera è un giovane promettente: ma gli sceneggiatori sono ancora indecisi, non sanno se farlo scomparire in dissolvenza o se dargli un ruolo da protagonista nella seconda stagione, combinandolo con una crescita del collega che interpreta la parte del re, apparso finora soltanto nelle scene di raccordo.
Intanto, in maniera interlocutoria, gli sceneggiatori di “Come cucinare un governo spagnolo di coalizione” hanno concesso al caratterista che interpreta Joan Tardá, l’ultraindipendentista catalano di Esquerra Republicana, una sequenza da antologia. Chiudendo il suo intervento nel dibattito di investitura di Sánchez, dopo aver esposto nel dettaglio i prossimi passi con cui il governo di Barcellona cercherà di “disconnettersi” da Madrid, Tardá dice: “Señor Sánchez, la vedo un po’ scarso quanto a tempra da statista (…). Lei dovrebbe essere il presidente del governo spagnolo? Beh, vede, mi dispiace per quelli che continueranno a far parte del Regno di Spagna. Per fortuna, noi ce ne andiamo (con un eloquente segno delle mani ad accompagnare le sue parole, ndr)”. Sipario. Almeno per ora.
Guido De Franceschi

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