E se poi l'elettore di Sanders preferisce Trump a Hillary?
Roma. Il giudizio che in questi giorni arriva dall’inner circle di Hillary Clinton è noto: viva Donald Trump, miglior avversario augurabile per la corsa alla Casa Bianca. E’ un uomo attaccabile, ha scheletri nell’armadio usabili contro di lui e al momento utile Hillary saprà terrorizzare l’opinione pubblica quanto all’idea di affidare le chiavi che contano a un tipo dal quale non si comprerebbe un’assicurazione. Però il ragionamento di questi spin doctor sta invecchiando rapidamente, nel post Super Martedì. Le possibilità di Donald Trump sono imperscrutabili, sebbene non è facile credere che le cose andranno con naturalezza verso quella sua nomination che sembra più che probabile. La sensazione è che da un momento all’altro possa capitare qualcosa di straordinario, che sia la Trumpapocalypse, ovvero una trovata esplosiva del candidato più sconcertante da molti anni a questa parte, o che sia la deflagrazione d’uno scandalo che potrebbe inghiottirlo in un boccone. Del resto non ci si può aspettare che il rapporto tra il Gop e Trump si possa ricomporre e la stessa Convenzione repubblicana che dovrebbe investirlo assume l’aria di una notte dei lunghi coltelli, da cui uscire intatto e nominato sarà un’impresa non facile.
La questione su cui riflettere è il significato assoluto che il successo della candidatura di Trump sta assumendo. Da un lato è evidente che si configura un effetto-valanga: più i cittadini chiamati a scegliere hanno la sensazione di possedere un potere di destabilizzazione nei confronti dello status quo, più capiscono che il loro voto serve a far sentire la loro voce e il loro scontento e più eserciteranno questo diritto. Votare per Trump per mandare un messaggio a Washington sta prendendo la forma di un contagio. La sensazione di far saltare il tavolo apparecchiato dai professionisti della politica è elettrizzante. Dare il sostegno all’alfiere dell’antipolitica e del decisionismo a istinto – quello che lui stesso presenta come il buonsenso dei veri americani, depurato dai pruriti del politicamente corretto – diventa una tentazione. Così il nome “Trump” diventa l’unico sinonimo di “mobilitazione”, l’occasione di far sentire il peso del proprio voto. Esiste la possibilità d’una fragorosa caduta della sua candidatura, ma esiste anche quella di un effetto-paradosso.
[**Video_box_2**]Trump è astuto, lo sa, ha decifrato lo strano assortimento americano che si sta incolonnando alle sue spalle. Per esempio: cosa accadrà il giorno in cui, al termine della valorosa contesa, Bernie Sanders alzerà le insegne della resa e consegnerà la sua campagna alla storia? Anche Sanders ha lavorato sul concetto di “differenza”, arrivando arditamente a parlare di “rivoluzione” come rottura radicale con l’establishment d’una politica decotta, autoreferenziale, ridimensionata nella rappresentatività, se è vero che oggi sono i soggetti, i leader, le facce, a contare davvero. Dove finiranno i voti che hanno sostenuto il blitz anti Washington vagheggiato da Sanders, rispetto alla ragionevole proposta della Clinton? Sono bianchi, sono middle class informata, sono persone con un rapporto disincantato col concetto di appartenenza e di fedeltà a un’idea, gente incuriosita dalla possibilità di un voto-provocazione: quanti elettori, inaccuratamente collocati a sinistra con Sanders, potrebbero tranciare lo scenario elettorale, approdando al voto di protesta più clamoroso, per colui che non li disgusta quanto l’idea d’uno stagnante status quo? Ecco: Trump oggi galleggia nella nuvola delle grandi incognite. Potrebbe svaporare. Ma potrebbe trasformarsi in un temporale d’autunno, sulla testa della donna che ancora non trova il modo di spiegare la sua indispensabilità a tutti gli americani. E non solo a quelli che la vedono come il male minore. O come la scafista d’un battello di salvataggio.
Dalle piazze ai palazzi