L'esodo dei neocon e il ritorno della vecchia destra di Trump
New York. I neoconservatori lavorano da tempo contro la candidatura di Donald Trump, ma ora che il gioiello dell’establishment diventato candidato anti establishment è a un passo dalla nomination, le dichiarazioni di guerra vengono ufficialmente diramate. Il primo a smarcarsi è stato lo storico Robert Kagan, il quale voterà Hillary Clinton se il candidato repubblicano sarà Trump, e le ragioni della fuga le aveva già spiegate lo scorso anno al New York Times. Hillary ha una prospettiva internazionalista, è un falco in politica estera, sostiene il regime change e un rinnovato impegno dell’America nel mondo.
L’enorme inchiesta del Times sul ruolo preminente di Hillary nella guerra in Libia mette a disagio molti nel partito della frontrunner, ma nella prospettiva neocon è la garanzia di una certa postura interventista (a prescindere dai risultati: una guerra può essere moralmente giusta ma condotta male). Si tratta pur sempre di “liberal assaliti dalla realtà”, di “wilsoniani con gli stivali”. Non è secondaria, nel ragionamento dei neocon, la posizione “neutrale” che Trump promette di mantenere fra Israele e Palestina. La “persuasione” neocon – così la chiamava il fondatore, Irving Kristol – è emersa nei circoli degli intellettuali ebrei di sinistra disgustati dalla posizione democratica dopo la guerra dei Sei giorni e quella dello Yom Kippur. L’alleanza senza tentennamenti con Israele non è negoziabile. Kagan è tra i firmatari dell’appello che pubblichiamo in queste pagine, coordinato dall’ex consigliere del dipartimento di stato Eliot Cohen e sottoscritto dalla brigata al completo degli esperti di sicurezza neoconservatori, da Max Boot a Michael Chertoff fino a Gary Schmitt e Robert Zoellick, nomi noti negli ambienti del conservatorismo dell’èra Reagan-Bush.
L’appello si articola in due punti fondamentali.
Primo: i princìpi della politica di Trump sono disdicevoli. Protezionismo, isolazionismo, pregiudizi nativisti, riferimenti a una tradizione xenofoba e wasp sono elementi che ripugnano agli intellettuali cresciuti in un clima laico e cosmopolita.
Secondo: Trump non è nemmeno coerente con i suoi princìpi. Per l’artista del negoziato tutto è negoziabile, non c’è coerenza nel suo reality show. Perciò, il gruppo promette di “lavorare per impedire l’elezione di una persona così inadeguata per il ruolo”. Cosa significhi in termini concreti lo ha indagato Michael Crowley sul quotidiano Politico, ricavando diverse sfumature strategiche: alcuni sosterranno Hillary, altri s’impegnano per tirare nella corsa un terzo candidato.
[**Video_box_2**]Al netto delle iniziative concrete, la fuoriuscita neocon pone la questione dell’identità ideologica del Partito repubblicano. Se i neocon sono inorriditi da Trump, i vecchi conservatori in stile Pat Buchanan lo salutano come il restauratore, magari inconsapevole, di una tradizione che si nutre di nativismo, di isolamento, di militarizzazione a scopo puramente difensivo (“non c’è niente di conservatore nella guerra”, diceva Christopher Hitchens), di dazi per proteggere la produzione domestica, un’idea conservatrice tradizionalista in ambito sociale, ammiratrice dell’ordine, più orientata al distributismo che al laissez-faire. Le parole d’ordine di Trump pescano in quella coscienza conservatrice dormiente, che sembrava superata dalla storia. C’è stato un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui i neocon venivano additati come eretici della destra. Scriveva lo storico Stephen Tonsor: “Mi è sempre sembrato strano, e anche perverso, che a degli ex marxisti sia stato permesso di avere un ruolo così prominente nel movimento conservatore nel Ventesimo secolo. E’ bellissimo quando la prostituta del villaggio viene illuminata dalla fede e si unisce alla chiesa. Può anche diventare una buona direttrice del coro. Ma quando inizia a dire al reverendo cosa dire nei sermoni della domenica, significa che abbiamo esagerato”.