Il raid dello Stato islamico a Ben Gardane in Tunisia
Roma. “C’è un piano per assaltare Ben Guerdane, con autobombe e un attacco di terra, comincerà non appena saranno pronti duecento uomini”. Così dice un volontario tunisino dello Stato islamico catturato a Sabratha, in Libia, in una video confessione messa su internet due settimane fa, martedì 23 febbraio. Ieri mattina prima dell’alba l’attacco è arrivato: un gruppo di combattenti dello Stato islamico in Libia ha dato l’assalto a una caserma di Ben Guerdane, città tunisina a soli trenta chilometri dal confine. I combattenti hanno bussato alle porte delle case annunciando: “Siamo lo Stato islamico”, in qualche caso hanno chiesto acqua, sono andati alla casa del capo dell’ufficio antiterrorismo e l’hanno ucciso. In meno di tre ore di scontri sono morti sette civili, undici uomini delle forze di sicurezza e trentacinque guerriglieri islamisti, sostengono gli ospedali e il ministero dell’Interno.
Secondo i testimoni, gli aggressori erano circa sessanta e non ci sono state le autobomba che di solito precedono questo tipo di attacchi. Il governo tunisino definisce l’operazione “un fallimento”. C’è da provare a immaginare quanto sarebbe stato peggiore questo stesso assalto se fosse stato lanciato un mese fa, quando la struttura dello Stato islamico e i suoi campi d’addestramento a Sabratha erano ancora integri e funzionavano a pieno regime, con più del triplo degli uomini e i camion bomba. Invece è successo che venerdì 19 febbraio un bombardamento americano ha distrutto una villa di Sabratha dove si erano raccolti circa quaranta combattenti del gruppo – anche due ostaggi serbi sono morti – e da quel giorno è cominciata una operazione antiterrorismo locale. La città ha abbandonato la postura ipocrita che aveva mantenuto fino ad allora e ha quasi smantellato l’organizzazione, cellula dopo cellula: “Nel giro di un mese siamo passati da ‘L’Isis non esiste a Sabratha’ all’annuncio di duecento membri uccisi”, commenta su Twitter Nadia Ramadan, la giornalista della Bbc che segue la crisi in Libia. E’ la stessa campagna in cui due ostaggi italiani sono stati assassinati e due sono stati restituiti all’Italia.
L’attacco di Ben Guerdane è un esempio di come può funzionare l’intervento internazionale in Libia. Lo Stato islamico usa il paese come piattaforma di lancio per operazioni anche all’esterno e attende nelle sue basi di essere abbastanza forte. Gli attori esterni, in questo caso l’America, impiegano aerei e intelligence per interrompere questa fase di guerra latente. Le operazioni a terra sono lasciate alle forze locali, Sabratha e militari tunisini, perché conoscono il terreno e il paesaggio umano, e anche perché la loro presenza non eccita la propaganda jihadista come invece fanno i grandi numeri di soldati occidentali.
[**Video_box_2**]Questo assalto non aveva come traguardo finale la conquista della città, ma era inteso come una dimostrazione di forza. Può essere riconducibile al battaglione al Battar, una unità scelta dello Stato islamico formata da veterani in maggioranza libici – ma anche di altri paesi del Nordafrica – che hanno combattuto in Siria e in Iraq. Il nome, “al Battar”, è quello di una delle spade del profeta Maometto, la stessa con cui secondo la tradizione religiosa re Davide tagliò la testa del gigante Golia. Al Battar addestrava nei suoi campi libici vicino Sabratha anche i tunisini che intendevano partecipare a operazioni in Tunisia. Tra loro si ritiene ci siano anche i due stragisti del museo del Bardo (marzo 2015) e della spiaggia di Sousse (giugno 2015). Fa parte di una linea politica e militare spiegata in un video prodotto dallo Stato islamico nell’aprile 2015: i tunisini sono chiamati ad addestrarsi in Libia per poi portare la guerra anche fuori.