Primarie repubblicane
Si apre oggi la caccia ai Trump Democrats fra i colletti blu del Michigan
New York. Donald Trump ha oltre venti punti di vantaggio nei sondaggi alle primarie del Michigan, dove si vota oggi, e il grande alchimista dei numeri elettorali Nate Silver dà la sua probabilità di vittoria al 94 per cento. Arrivare primo, però, non è sufficiente. In Michigan Trump mette alla prova uno degli assiomi fondanti della sua campagna elettorale, quello dell’allargamento della base repubblicana alla working class bianca che cerca protezione ma non ha giurato fedeltà eterna al Partito democratico. Il Michigan è un ottimo campione per dedurre il comportamento di un elettorato bianco che non è repubblicano per natura, ma è sensibile ai richiami di un candidato eterodosso che vuole imporre dazi sulle merci straniere per proteggere l’industria americana affossata dalla concorrenza.
I vasti sobborghi a nord di Detroit, dove i bianchi si sono stabiliti in massa dopo le sommosse razziali del 1967, sono il cuore di questo esperimento politico, e Trump è ansioso di vedere i dati che provengono da quelle parti per capire se la strategia è replicabile negli altri stati della rust belt, dalla Pennsylvania allo stato indeciso e decisivo per eccellenza, l’Ohio. L’affluenza, ancora una volta, sarà importante per capire quanto è ampia la base di Trump, il quale non mente quando dice che “un repubblicano normale non può pensare di vincere il Michigan, e se non lo vinci è dura, hai una strada davvero stretta davanti a te”. Trump è convinto che soltanto una candidatura anomala e antipolitica come la sua può muovere trend elettorali che ormai si danno per ineluttabili, e che tendenzialmente non favoriscono il Partito repubblicano. Nelle ultime sei elezioni generali lo stato è sempre stato vinto dai democratici.
Quello che Trump ha in mente è riprodurre in versione da reality show arrabbiato il messaggio che Reagan proponeva in versione hollywoodiana e carismatica, un richiamo in cui i colletti blu possono riconoscersi e sovvertire le tradizioni di voto. E’ nella Macomb County del Michigan che nel 1985 lo statistico Stan Greenberg, poi diventato un fedelissimo di Bill Clinton, ha osservato il fenomeno dei “Reagan Democrats”, constituency che per ceto e umore doveva trovare un rifugio sicuro sotto la tenda democratica, mentre invece ha votato Reagan. Nota bene: ha votato Reagan, non un “repubblicano normale”, come da definizione spregiativa di Trump. La lezione politica che i democratici avevano tratto dallo studio di Greenberg è che anche la base più fedele va coltivata costantemente, altrimenti si rischia di perderla di fronte a un avversario che tocca i tasti giusti. Trump in Michigan sta cercando di capire se i nuovi Reagan Democrats sono pronti a diventare Trump Democrats.
[**Video_box_2**]Oggi gli studi di Greenberg dicono che esiste una fetta di elettorato repubblicano che non si sente rappresentato dal partito, e il sondaggista vede questi ipotetici Hillary Repubblican come una delle chiavi per vincere a novembre, senza tuttavia sottovalutare la capacità trumpiana di muoversi in modo trasversale. Gli elementi per immaginare un cambio di comportamento della working class non mancano. La crisi ha battuto sullo stato con forza inaudita e ci sono sacche rilevanti di disoccupazione. Non è inusuale che le vittime della crisi manifatturiera attribuiscano le colpe alla concorrenza straniera (l’immigrazione è questione sorella: è concorrenza nella manodopera), e se c’è un messaggio costante nel contraddittorio turbine di Trump è quello protezionista. Non senza ragioni, il frontrunner sottolinea che negli undici stati che hanno votato finora l’affluenza è stata più alta delle ultime tornate, prova che lui porta a sostegno della tesi dell’allargamento del partito. Inoltre, Trump ha bisogno di fare breccia nel ceto medio-basso bianco per poter compensare la perdita di una parte dell’elettorato ispanico, fatto appena naturale per un candidato che fa del muro al confine il totem della sua campagna.