Chi sarà il nuovo presidente della Birmania, e perché non sarà Aung San Suu Kyi
Il candidato designato dalla Signora è il favorito alla presidenza, ma non sarà il suo “burattino”. Le critiche dell’occidente e l’arte incompresa del compromesso.
“Devi andarci ora in Birmania, prima che cambi”, è il consiglio dei soliti habitués del sud-est asiatico a chi pianifica un viaggio in questa parte di mondo. Seguito da uno sconsolato: “Ma è già troppo tardi”. La “vera Birmania”, agli occhi di questi smarriti sognatori, che la ricordano in un bizzarro miscuglio di nostalgia e voyeurismo, è una sequenza d’immagini di puro orientalismo, di un magico paese sfuggito al demone della globalizzazione che oggi si manifesta con tutti i suoi simboli: fast food, facebook, jeans (che sostituiscono il tradizionale longyi, una specie di sarong), speculazioni immobiliari. I birmani, invece, hanno osato liberarsi dagli stereotipi in cui erano intrappolati per volere di una dittatura che aveva fermato il tempo al 1962. La vita, certo, era più semplice, ma più dura, cupa. Più breve.
La stessa visione disfunzionale si manifesta in molti osservatori occidentali che analizzano l’evoluzione della politica birmana e il comportamento della sua artefice Aung San Suu Kyi secondo schemi d’astratto idealismo. Accade in questi giorni, mentre si decide il nuovo presidente dell'Unione del Myanmar (nome ufficiale della Birmania). Quasi certamente sarà un esponente della National League for Democracy (NLD), il partito guidato da Aung San Suu Kyi che ha vinto le elezioni del novembre scorso con una maggioranza dell’80 per cento. Per la precisione sarà Htin Kyaw, oggi designato come uno dei due candidati del partito alla presidenza. L’altro è Hinery Banhteey, esponente della minoranza etnica Chin. Un terzo candidato sarà espresso dai militari (che secondo la costituzione da loro stessi stabilita nel 2005, detengono il 25 per cento dei seggi), molto probabilmente il generale Khin Aung Myint, capo di stato maggiore dell’aeronautica. La scelta finale sarà compiuta la prossima settimana dalle camere riunite del Pyidaungsu Hluttaw, il Parlamento – complesso di 31 palazzi che simbolizzano i livelli dell’esistenza nella cosmologia buddhista – di Naypyidaw, la capitale birmana.
Gli unici dubbi sull’elezione di Htin Kyaw sono determinati dall’imperscrutabilità della politica locale: tutto può accadere, prescindendo da ogni logica politica o democratica. La NLD, infatti, ha una maggioranza che non può essere minacciata, nemmeno dai militari. A meno che questi non decidano di riprendere il potere dichiarando lo stato d’emergenza nazionale. Né sembra possibile che la scelta cada sul rappresentante della minoranza Chin. A lui, come al candidato dei militari, è riservata la carica di vice-presidente. Sopra tutti, come ha dichiarato lei stessa, governerà Aung San Suu Kyi. Secondo la Costituzione non può essere eletta presidente per i suoi legami familiari con cittadini stranieri. Il veto si è rivelato insormontabile nonostante le proposte di emendare la Costituzione discusse dopo le elezioni tra la Signora e il Generale Min Aung Hlaing, potentissimo comandante in capo di Tatmadaw, le forze armate.
In occidente gli incontri e i tentativi d’accordo sono stati criticati in quanto concessioni o cedimenti, senza tener conto del potere effettivo dei militari, riconosciuto dalla stessa Aung San. Una volta falliti, le critiche sono divenute d’ingenuità o mancanza di fermezza. Quindi è stato criticato il silenzio della Signora riguardo la scelta del candidato, decisa nell’ambito di un suo misterioso cerchio magico. Infine è stato criticato il candidato, definito un “burattino” nelle sue mani. Htin Kyaw, poi, viene presentato come il suo “autista”.
Questo sessantanovenne “geniale”, così lo definisce Larry Jagan, uno dei più acuti osservatori delle questioni birmane, laureato allo Yangon Institute of Economics e poi alla Oxford University, è uno scrittore, veterano della NLD ed ex detenuto politico, amico di Aung San dai tempi della scuola, stretto collaboratore della Suu Foundation, organizzazione umanitaria per lo sviluppo della salute e dell’educazione. Figlio di Min Thu Wun, scrittore onorato dal titolo di “poeta nazionale”, è sposato con Su Su Lwin, anche lei amica di Aung San e figlia di un ex colonnello che negli anni ’90 fu segretario e tesoriere NLD. “U Htin Kyaw è una scelta magnifica, un uomo rispettato, d’indiscussa integrità, una persona buona e gentile. Gli osservatori non hanno compreso il punto”, ha twittato lo scrittore e storico Thant Myint-U, uno dei personaggi di maggior spicco della nuova Birmania, nipote di U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite dal 1961 al ’71. Certo: Htin Kyaw è stato anche “autista” di Aung San, quando tale incarico significava rischiare la vita per lei e ben pochi avrebbero potuto garantirle la stessa fedeltà.
La stessa fedeltà che dovrà manifestare da presidente. Il che non significa essere un “burattino”, bensì una sorta di delegato, comprendere che la vittoria della NLD è la vittoria di una persona sola e che solo Aung San Suu Kyi gode del consenso popolare e del sostegno internazionale indispensabili al progresso del paese. Secondo alcuni vorrebbe seguire le orme di Sonia Gandhi che, pur non avendo ruoli ufficiali di governo, esercitava il suo potere attraverso il Partito del Congresso Indiano. Più calzante il paragone con Lee Kwan Yew, il demiurgo di Singapore, che si riservò il ruolo di “senior minister” per continuare a elaborare le strategie del suo partito e della città stato. Come Lee, infatti, la politica di Aung San sembra improntata a una visione pragmatica e fortemente radicata nella cultura asiatica secondo cui i rapporti gerarchici non sono considerati una forma di sottomissione ma rientrano nell’ordine naturale. Come accadde a Lee, inoltre, la Signora si trova nella situazione di dover trasformare “un paese in una nazione” creando un governo di riconciliazione nazionale.
Nei prossimi cinque anni dovrà affrontare la questione etnica, reincarnando l’Unione Birmana in una Federazione (cosa inconcepibile senza l’aiuto dei militari). Dovrà riequilibrare la politica estera, sinora condizionata dalla Cina (in una delle prime dichiarazioni vuole ridiscutere gli accordi per la costruzione di dighe e lo sfruttamento minerario). Dovrà liquidare l‘economia cleptocratica gestita dal Myanmar Economic Holdings Limited, conglomerato in mano ai militari, evitando che la Birmania si trasformi in un’economia di frontiera in mano agli speculatori, ma al tempo stesso rassicurando gli investitori esteri. Senza contare che il suo governo entrerà in carica in aprile, quando si prevede una delle peggiori siccità degli ultimi cinque secoli che potrebbe avere effetti devastanti sul 70 per cento della popolazione che vive d’agricoltura.
Le critiche al suo operato sono destinate a continuare. Soprattutto da parte dell’occidente. E’ improbabile che la Signora possa affrontare tutte queste sfide (e molte altre) nello spirito della purezza democratica. In compenso, ha scritto Peter Popham, il biografo di Aung San Suu Kyi: “Per la prima volta da che è stata ammainata la bandiera britannica nel 1948, il popolo birmano ha la sensazione che il futuro gli appartenga”.