Tra trucchi, calcoli e soldi, così sta evaporando la Trumpfobia
Milano. “Finalmente sono noiosi!”, ha titolato il sito Drudge Report commentando l’ultimo dibattito elettorale dei repubblicani, che si è tenuto giovedì sera a Miami. Nessun colpo basso, nessun attacco diretto, i quattro candidati rimasti nella corsa presidenziale – Donald Trump, Ted Cruz, Marco Rubio e John Kasich – hanno parlato direttamente al pubblico facendo promesse e spiegando i loro progetti. Noioso sì, normale forse è la definizione giusta, anche se molti commentatori liberal si sono ribellati a questa lettura dell’incontro: se non si alzano i toni, non vuol dire che la candidatura di Trump sia meno spaventevole di prima (qualcuno ha anche aggiunto: volete fermare Trump e nessuno lo attacca? Geniale). Ma la normalizzazione del candidato Donald è iniziata: quel che non si può distruggere si accetta, staranno pensando molti, e lo stesso Trump approfitta del cambio di vento per truccarsi con la ragionevolezza e la calma, giocando furbo la carta dell’outsider che può trasformarsi in un fattore unificante – lui che spacca tutto e ne è orgoglioso – per il Partito repubblicano.
Gli analisti iniziano a spiegare perché la candidatura di Trump in fondo potrebbe non rivelarsi così disastrosa. Peter Apps ha scritto su Reuters che il fenomeno Trump rientra in un trend globale di rottura degli schemi costituiti, ma dice che tra tutti i paesi del mondo l’America, per come è fatta, con il suo sistema di checks and balances, è quella che meglio potrebbe assorbire una presidenza tanto particolare. Il politologo Edward Luttwak ha scritto sul Wall Street Journal che la Trumpfobia dovrebbe essere ridimensionata: anche Ronald Reagan nasceva come un outsider odiatissimo e poi ha cambiato la storia del conservatorismo moderno (alcuni hanno ironizzato sull’uscita di Luttwak: è soltanto un tentativo di farsi assumere nel team di politica estera di Trump, che ancora non è stato definito). La femminista Camille Paglia ha scritto su Salon: mi ero sbagliata su Trump, lo avevo definito un imbonitore carnevalesco, e forse lo è ancora, ma il suo “candore senza paura e la sua energia sono una boccata d’aria fresca” in un mondo governato dalla correttezza politica noiosa. La Paglia, come molti altri, si ricrede perché pensa che Trump sia l’unico che possa battere Hillary Clinton, e questo è uno dei motivi per cui la normalizzazione sta prendendo piede (oltre a una simpatia indicibile che circola in molti ambienti: basta leggere Maureen Dowd, columnist del New York Times, per capire che il mondo liberal newyorchese non è poi così distante dall’imprenditore bling-bling).
I neoconservatori continuano a essere i più ostili nei confronti di Trump (sono gli unici che voterebbero Hillary piuttosto), ma anche nel mondo dei big donors la Trumpfobia sta sfumando. Politico ha raccontato che i finanziatori repubblicani fanno i conti con la possibilità che sia Trump il candidato e se la sfida sarà contro la Clinton non hanno dubbi: lo sosterranno. Manu Raju della Cnn ha spiegato che la scelta tra Trump e Ted Cruz, il diretto inseguitore, sta spaccando i repubblicani: l’ex candidato e senatore Lindsey Graham guida il fronte pro Cruz contro l’imprevedibilità di Trump, ma “un numero sorprendente di senatori del Gop è pronto a sostenere Trump” (ieri ha incassato l’endorsement dell’ex candidato Ben Carson). Ciò potrebbe rivelarsi decisivo se Trump non dovesse raggiungere il totale di delegati (1.237) che gli garantisce la nomination. E’ uno scenario possibile? Gli strateghi repubblicani che hanno analizzato le future primarie distretto per distretto, sostengono che Trump deve vincere il 54 per cento dei delegati che rimangono. Se vincesse, martedì, in Ohio e in Florida, potrebbe arrivare a 1.350/1.370 delegati. Senza questi due stati, potrebbe fermarsi a 1.200, ma nessuno riuscirebbe a riacciuffarlo.