A che punto è il disgelo fra Israele e Turchia. C'entra la Russia in Siria
Roma. Domenica a tarda sera il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha condannato l’attentato che ha ucciso 34 passanti ad Ankara, in Turchia, e ha espresso la sua “solidarietà con il popolo turco nella guerra al terrorismo”. Può sembrare una formalità di rito, ma è l’ultima novità in una partita internazionale importante tra Gerusalemme, Ankara e Mosca. Come aveva notato a gennaio la tv israeliana Channel 2, il governo israeliano non ha condannato in modo esplicito i precedenti attentati in Turchia, andando contro il consiglio del proprio ministero degli Esteri, come risposta al fatto – secondo alcuni funzionari citati dal programma – che “la Turchia non condanna gli attentati dei palestinesi contro gli israeliani”. E’ successo per esempio il 17 febbraio, quando un’autobomba ha colpito un bus che trasportava militari turchi, uccidendo 29 persone (l’attacco è stato rivendicato da un gruppo minore associato al Pkk), o a gennaio, quando una bomba ha ucciso 13 turisti davanti alla Moschea blu di Istanbul (l’attentatore apparteneva in questo caso allo Stato islamico).
La condanna di Netanyahu potrebbe essere il segnale che il processo di riconciliazione tra Turchia e Israele è davvero in fase avanzata, dopo il quasi azzeramento delle relazioni diplomatiche dopo i fatti della nave Mavi Marmara, nel 2010 (le forze speciali israeliane uccisero dieci cittadini turchi a bordo di una nave che tentava di forzare il blocco davanti alla costa di Gaza). Che si fosse a buon punto si intuiva da molte fughe di notizie arrivate nelle ultime settimane soprattutto da parte turca. Mercoledì scorso il vicepresidente americano Joe Biden, in visita a Gerusalemme, ha detto a Netanyahu: “Erdogan vuole la riconciliazione con Israele il prima possibile”. Prima però ci sono ancora questioni da risolvere: tra le condizioni c’è per esempio la rimozione di uomini e sedi di Hamas dalla Turchia, da dove per ora organizzano operazioni contro Israele.
Se le relazioni tornassero alla normalità, i due governi potrebbero parlare di un contratto enorme che riguarda il gas davanti alle coste israeliane: la Turchia cerca un fornitore alternativo alla Russia, gli israeliani cercano un compratore. Una fonte del ministero degli Esteri israeliana che preferisce non essere citata con il nome dice però al Foglio: “Dubito che le relazioni con la Turchia potranno mai ritornare come erano prima”.
La Russia potrebbe inceppare questo processo di riavvicinamento. Il giorno della visita di Biden, il giornalista israeliano Ben Caspit ha scritto un pezzo intitolato: “Perché Israele ha più bisogno di Putin che di Erdogan”, in cui rivela che Netanyahu ha quasi costretto all’incidente diplomatico il presidente, Reuven Riklin, che da tempo era atteso con tutti gli onori in visita ufficiale a Canberra, in Australia, per il 17 marzo (gli australiani attendevano con eccitazione l’arrivo, avevano cambiato l’agenda degli appuntamenti, un mebro del governo ha annullato un viaggio all’estero). E’ successo però che i russi hanno invitato Rivlin lo stesso giorno ed è stato necessario scegliere: Canberra o Mosca. Ha vinto la seconda. Come spiega Caspit, in questo momento il governo israeliano vede un’opportunità di infilare un cuneo nell’alleanza tattica tra il presidente Vladimir Putin e i grandi nemici di Israele, Iran e Hezbollah, in Siria. Ci sono segni di malcontento. Il 5 marzo il quotidiano kuwaitiano al Jarida (in arabo: il Giornale) ha scritto che Mosca ha bloccato di almeno sei mesi il trasferimento del sistema missilistico strategico S-300. Al Jarida sostiene che i russi sono infuriati perché le armi che hanno dato alla Siria sono state trasferite a Hezbollah in Libano, e che in alcuni casi hanno puntato gli aerei russi sopra il Libano. Caspit dice che il giornale kuwaitiano è spesso usato da ufficali israeliani per far trapelare notizie. Resterebbe tutto nel mondo delle congetture, se non fosse arrivata la svolta improvvisa del parziale ritiro russo dalla Siria.
L'editoriale dell'elefantino