In Spagna servono due leader per fare un Renzi. Pazza idea
Il leader del Partito popolare spagnolo e premier facente funzioni, Mariano Rajoy, ha detto in un’intervista qualche giorno fa che se il socialista Pedro Sánchez – dopo aver stretto un patto di governo con i Ciudadanos di Albert Rivera e dopo aver fallito due tentativi di ottenere la fiducia in Parlamento – vuole presentarsi alle ulteriori consultazioni con gli altri partiti “insieme con il suo socio di fatto, il signor Rivera, io non lo impedirò”. E ha aggiunto sornione: “Se poi il Psoe e Ciudadanos vogliono correre insieme alle prossime elezioni…”. Il messaggio, neppure troppo in codice, serviva a spaventare gli elettori di Ciudadanos (C’s), che provengono in larga parte dal tradizionale bacino in cui galleggiano i voti dei popolari. Nessuno ha dato peso a questa boutade di Rajoy. Gli analisti sono impegnati nell’individuare un “mariomonti” spagnolo (cioè un tecnico) o un “enricoletta” spagnolo (cioè un esponente popolare, in caso di un improbabile passo a lato di Rajoy) capace di sbloccare lo stallo. Altri commentatori immaginano invece una “operación Borgen” che, sulla falsariga della serie tv danese, vedrebbe il ciudadano Rivera approdare alla guida del governo nonostante i suoi pochi seggi (40 su 350). Ma se Rajoy avesse invece formulato involontariamente una soluzione capace di condannarlo alla sconfitta? In altre parole: ma se, invece di logorarsi nel tentativo di aggregare consensi parlamentari intorno al loro patto di governo in 200 punti, Sánchez e Rivera decidessero di spingere verso le urne con la prospettiva di correre insieme in una “lista per il governo e per il cambio”, relegando Podemos nella posizione del “signor no” incontentabile e Rajoy nella posizione dell’anziana vestale di un immutabile status quo?
Sánchez e Rivera rischierebbero di irritare i loro elettori? Forse sì. Ma, d’altra parte, i socialisti perplessi (“Non ci si può alleare con i neoliberisti di C’s, che sono una sottomarca del Pp!”) e i ciudadanos perplessi (“Rivera, non ti abbiamo dato il voto per far governare la sinistra!”) saranno comunque già disgustati dal patto di governo. E potrebbero essere sostituiti da elettori più pragmatici. In ogni caso, postulando un’immutata distribuzione dei voti nelle prossime elezioni, una “lista per il governo Sánchez-Rivera”, anche grazie ai meccanismi del metodo d’Hondt che si applica nel sistema elettorale spagnolo, sarebbe la prima forza davanti al Pp e potrebbe negoziare da una posizione di vantaggio.
Già adesso Sánchez dice che la sua piattaforma (130 seggi, cioè i 90 del Psoe più i 40 di C’s) è più ampia di quella di Rajoy (i 123 seggi del Pp). Ma Rajoy, proprio per confutare questa affermazione ha fatto a buon diritto la succitata battuta: il discorso sui 130 seggi non ha senso, ha detto il leader del Pp, perché il Psoe e C’s “non erano in coalizione alle elezioni e in origine i loro programmi non avevano alcunché in comune. Se poi vogliono correre insieme alle prossime elezioni…”. Se tentasse una spericolata mossa del cavallo e varasse una sorta di partitino della Nazione, la coppia Sánchez-Rivera incarnerebbe in tandem una figura bicefala à la Matteo Renzi, dandosi un profilo pragmatico-riformista – chi ci sta metta sotto il dito – e rottamatore. Per perseguire l’obiettivo C’s dovrebbe dipingere il Pp come un articolo da robivecchi e Sánchez dovrebbe scontrarsi con il Comité federal del Psoe, con Felipe González & C. e con i barones locali, decisi a difendere a sciabola sguainata la purezza della ditta. Ma, nella realtà, una coalizione elettorale Psoe-C’s appare come un esercizio di sfrenata fantapolitica che nessuno si permette di fare. E questo la dice lunga sull’impasse che impedisce la formazione di un nuovo governo spagnolo, sul velleitario tentativo di Sánchez di continuare le negoziazioni in coppia con Rivera e sull’apparente inesorabilità di un accordo, prima o dopo le elezioni, tra il Pp e il Psoe.