Onfray e gli altri. Chi sono le vittime della fatwa dell'islamofobia in Francia
Parigi. “Islam, politica, valori: è necessario bruciare Michel Onfray?”, titola l’Express. “Perché tanto odio?”, rincara Libération. Con questi toni la stampa parigina ha accolto mercoledì la pubblicazione di “Penser l’islam” (Grasset) – dopo la sua uscita in Italia in anteprima mondiale per Ponte alle Grazie – e di un’autobiografia politica, “Le Miroir aux alouettes”, dove il filosofo libertario bastona la gauche che in nome del pol. corr. ha tradito i suoi valori. Due libri infuocati che sono già due casi editoriali, dopo la “pausa di riflessione” durata quasi tre mesi – un’eternità per un habitué dei salotti televisivi e delle prime pagine dei settimanali parigini – e lo rilanciano nel ring mediatico dove ad attenderlo sono gli stessi nemici che sbertuccia nei suoi pamphlet, e ora, per ripicca e oltranzismo ideologico, lo designano come “neoreazionario”.
Per l’establishement di sinistra, c’è una data precisa che separa il Michel Onfray frequentabile e il Michel Onfray infrequentabile. E questa data combacia precisamente con il suo celebre intervento critico nei confronti dell’islam, nell’estate del 2010, quando durante la trasmissione Les Grandes Gueules, su Rmc disse che la religione maomettana “non è una religione di pace, di tolleranza e di amore”. Di più: “L’islam è un problema. Se leggete il Corano, se leggete la vita del Profeta o gli Hadith, vi rendete conto che non siamo affatto in una logica repubblicana, ma piuttosto misogina, fallocrate”. Da quel momento è calato il sipario: per la gauche il santino Onfray diventa “apostata”, l’intellò fieramente antireligioso ed edonista è solamente “islamofobo”, e i suoi aficionados, quelli che ostentavano l’insolente “Traité d’athéologie”, decidono di derubricarlo dalla lista dei presentabili.
Nemmeno il lucido dialogo con la giornalista algerina Asma Kouar in “Penser l’islam”, dove Onfray sfugge alla narrazione semplificatrice imposta dal sistema politico-mediatico provando razionalmente a risvegliare lo spirito critico, ha cambiato le cose. In questi giorni, nei giornali della sinistra benpensante parigina, si celebra invece il sabba anti Onfray, e Libération, sempre in prima fila nella distribuzione di patenti di bontà e virtù, accoglie così i due nuovi saggi del filosofo di Caen: “E’ un uomo ferito e ossessionato dalle accuse che riceve. Paranoico, vendicativo, demagogico (...) quando Onfray imbraccia il discorso sulla ‘guerra di civiltà’ (...) sembra di sentire Zemmour o Finkielkraut”. Mediapart, dopo che Onfray si permise in diretta televisiva di presentare il Corano “come un testo aggressivo che insegna a detestare”, lo liquidò come “nuovo soldato contro l’islam e i musulmani”. Ora, il sito del trotzkysta Edwy Plenel, il dhimmi della gauche per eccellenza che fa i tour con l’intellettuale svizzero Tariq Ramadan per dire che è tutta colpa dell’occidente se gli islamici si estremizzano nelle banlieue, dice che quella di Onfray è “islamologia da bar”.
E’ una caccia all’uomo senza pause, che ha dei bersagli ricorrenti, i Finkielkraut, i Zemmour, le Lévy, i Rioufol, ma con nuovi ingressi ogni settimana. E’ il caso recente di Farid Abdelkrim, ex presidente degli Jeunes musulmanes de France, autore di “L’islam sera français, ou ne sera pas”, che da quando ha detto al magazine Causeur che “l’islamofobia non esiste” e che è giunta l’ora per la comunità musulmana di assumersi le proprie responsabilità, è tenuto a margine del dibattito pubblico. Stessa storia per lo scrittore algerino Boualem Sansal, vincitore del Grand prix du roman de l’Académie française per il suo romanzo distopico ambientato in un mondo sottomesso al califfato islamico. Bestseller incensato dalla critica mondiale, “2084” non convinceva alcuni accademici del Goncourt che gli hanno negato il Graal dei premi letterari francesi. Motivo? Il suo romanzo era un tantino “islamofobo”, secondo i membri della giuria.
Ma l’affaire forse più eclatante resta quello di Kamel Daoud, lo scrittore algerino che ha deciso di ritirarsi dal giornalismo perché “è impossibile parlare di islam”. Con coraggio si era lanciato in un’analisi frontale dei fatti di Colonia, denunciando la “miseria sessuale” del “mondo di Allah”. Sul Monde, pochi giorni dopo, diciannove accademici hanno firmato una lettera accusandolo di “nutrire fantasie islamofobe”. “Il processo per islamofobia contro Kamel Daoud è degno dell’epoca staliniana”, ha attaccato sul Figaro il politologo Laurent Bouvet, accusando il “complesso coloniale” e “il rifiuto della realtà” di certa gauche. La fatwa laicista non fa meno male della fatwa islamista.