La rivolta tra gli ebrei americani contro Trump: “Non parli all'Aipac”
Roma. A Donald Trump non è sembrato vero di poter usare una scusa valida per saltare il previsto (e ora cancellato) ennesimo dibattito televisivo su Fox News con gli altri repubblicani che gli contendono la nomination alla convention di Cleveland – a fine gennaio snobbò il confronto definendosi “diverso” e pochi giorni dopo perse in Iowa. “Dovrò tenere un grande discorso davanti a un gruppo di persone davvero importanti”, ha detto a mo’ di giustificazione per declinare l’invito, confermando al contempo che lui alla tradizionale conferenza dell’American-Israel Public Affairs Committee (Aipac) di Washington, in programma dal 20 al 22 marzo, parlerà. Nonostante il moto di indignazione che s’è levato online, con petizioni per chiedere a chi di dovere di cambiare il programma e di mettere alla porta l’immobiliarista newyorchese che guarda già alla sfida finale di novembre per la Casa Bianca.
“Concedendo a Trump un palco senza prendere una posizione sulle sue parole d’odio, l’Aipac sta contribuendo ad alimentare la discordia, e questo è l’errore cruciale che sta commettendo”, ha scritto Robe Eshman, direttore del Jewish Journal, aggiungendo che forse gli organizzatori avrebbero dovuto prestare più attenzione alle dichiarazioni contro i musulmani divenute un leitmotiv della campagna del frontrunner repubblicano: “Soprattutto se si tiene presente che circa il venti per cento dei cittadini israeliani è musulmano”. Ed è proprio a questo che si è riferito Peter Beinart, firma di Atlantic ed editorialista di Haaretz, che appena letto il nome di Trump sul programma della conferenza – interverranno anche Hillary Clinton e il vicepresidente Joe Biden – ha consegnato a Twitter tutto il suo disgusto: “Se un candidato presidenziale avesse proposto il divieto (temporaneo) per gli ebrei di entrare negli Stati Uniti, l’Aipac lo avrebbe invitato a parlare?”.
Lo sdegno ha invaso il web, con duecento firme apposte su una petizione che chiede ai vertici dell’Aipac di tornare sui propri passi e di approntare un nuovo parterre di oratori. Tutto meno che Trump, insomma, perché “una persona così diametralmente opposta ai valori ebraici non può avere spazio in un luogo dove si perorano le cause ebraiche”. Su una posizione più intermedia si colloca l’Union for Reform Judaism, che quanto a numero di affiliati è il maggior gruppo ebraico sul suolo americano. Con un comunicato diffuso lunedì, l’organizzazione ha bocciato i toni usati da Trump in campagna elettorale, ma non ha richiesto la revoca dell’invito alla conferenza. E dall’Aipac confermano di non voler cambiare una virgola rispetto a quanto annunciato, men che meno di cancellare l’evento con il probabile vincitore della nomination repubblicana. Tutti i candidati presidenziali, infatti, sono stati invitati a partecipare (è atteso anche Ted Cruz, in una pausa della maratona di rally in Utah e Arizona, dove il 22 marzo sarà messo in palio un centinaio di delegati) e fonti interne ricordano che lo scopo di questi interventi è di ascoltare ciò che i candidati hanno da dire a proposito di Israele, “e su questo punto Trump finora è stato vago”, si sottolinea dall’Aipac, mentre altri osservano che nessuno degli sfidanti è più filoisraeliano di lui – Cruz avrebbe qualcosa da ridire. Proprio ieri, intervistato da Israel Yahom (giornale che gli ha concesso l’endorsement), Trump ha detto che “il mio successo è una notizia strepitosa per Israele. Un vostro amico è in testa alle primarie. Vi amo”. Sulla scia delle contestazioni della settimana scorsa a Chicago, poi, sono già annunciate proteste. Trump non ne sembra turbato, tira dritto e fa sapere di essere occupato a preparare il discorso.