L'harem, il potere, le mimose. Profilo di una first-lady neo-ottomana
Lo scorso 8 marzo, il presidente turco Erdogan ci ha ricordato come il tempismo, nella vita, sia tutto, dichiarando di ritenere che “la donna è innanzitutto madre” nel giorno in cui il mondo celebra l’emancipazione politica, sociale e sessuale femminile. La sponda che, due giorno dopo, gli ha offerto la moglie Emine – affermando durante un evento sulla storia ottomana come l’harem fosse “un’istituzione educativa che preparava le donne alla vita” e “una scuola per i membri della dinastia ottomana” – non è arrivata per caso.
La tempesta tra detrattori e sostenitori delle opinioni della first lady turca su media e social non deve infatti nascondere un fattore politico di primaria importanza: Emine Erdogan ha giocato e gioca un ruolo di prim’ordine nella costruzione non solo dell’immagine del marito come “nuovo Ataturk” ma soprattutto nella sua visione di una Turchia a trazione islamista, neo-ottomana e anatolica. Non sarà forse quello che per Reagan è stata Nancy, ma Emine non si è mai accontentata dell’ombra dell’ingombrante marito e vanta un proprio importante pedigree politico.
Emine Erdogan
La signora Erdogan nasce come Emine Gülbaran a Istanbul nel 1955 da una famiglia di origine araba proveniente dalla provincia di Siirt, nel sud-est a maggioranza curda. Abbraccia l’attivismo politico di matrice islamista già in giovane età, fondando l’Associazione delle donne idealiste, e conosce il futuro marito ad un corteo, durante il quale l’allora giovane e (già) infocato leader stava recitando poesie. I due si sposano nel 1978, dopo – narrano le cronache – aver superato le resistenze della madre di lui, che per il figlio sognava una donna in chador integrale e non nell’al-amira usato da Emine. Lei, nel frattempo, si rivela fondamentale nell’accompagnare la scalata di Erdogan al Refah, il “Partito del Benessere” fortemente islamista e precursore dell’AKP, di cui fonda la sezione femminile a Istanbul. Man mano che il marito consolida il proprio status politico, prima come sindaco della città sul Bosforo, poi da premier e infine da presidente, Emine rafforza il suo profilo sociale, strizzando l’occhio sia alla base conservatrice e “pia” dell’elettorato – partecipando a iniziative per i più poveri – che ai laici spaventati nel vedere una donna velata aggirarsi nelle stanze del potere, dimostrando anche agli occhi del mondo di essere a proprio agio a fianco delle altre first ladies. Emine è in prima linea insieme al marito nei viaggi più emotivi (e mediaticamente ghiotti), come quello a Mogadiscio nel 2011, e agisce addirittura da sua “inviata” recandosi personalmente in Pakistan per consegnare i fondi raccolti per le pesanti alluvioni del 2010 – giocando così un ruolo di primo piano nel tentativo del leader di ravvivare la “solidarietà musulmana” di Ankara.
La signora Erdogan si dimostra inoltre capace di assecondare il “trasformismo” politico-ideologico del marito: quando l’esperienza della rimozione dalla carica di sindaco e del carcere per “incitamento all’odio religioso” nel 1998 contribuiscono alla sua decisione di far nascere l’allora moderato AKP dalle ceneri del Refah, Edine matura la decisione di passare dall’intransigente corrente sunnita dello shaf’ismo al più liberale e in voga hanafismo. Edine ha così contribuito a mantenere il difficile equilibrio tra conservatorismo islamico e liberalizzazione perseguito durante i primi mandati di Erdogan, ma quando esso è stato travolto dalle crescenti tendenze autoritarie del presidente, anche il suo ruolo ne è uscito compromesso. Così, il tentativo del quotidiano più filo-AKP che esista, Yeni Safak, di “umanizzare” la famiglia Erdogan a fronte delle crescenti proteste per il nuovo costosissimo palazzo presidenziale e in vista delle elezioni dello scorso giugno, si è trasformato in un tragicomico boomerang, con Edine che raccontava in un’intervista come in cucina riciclasse le bucce di limone e mele per l’aceto e i noccioli di olive e datteri per farne delle salse. Il top si è poi raggiunto quando la first lady ha rivelato come, in ossequio al culto del biologico e del chilometro zero, nel palazzo si consumasse solo tè bianco proveniente dalla regione di Rize, sul Mar Nero – un tè, come poi scoperto da alcuni giornalisti, il cui costo si aggira intorno ai 2000 dollari al chilo.
I commenti sull’harem non devono quindi stupire più di tanto: mostrano per l’ennesima volta i true colors di un governo – e di una famiglia – che continua a pescare nel retaggio imperiale per consolidare sul piano domestico una narrativa di potere. Che tali commenti provengano da Edine Erdogan dovrebbe, forse, stupire ancora meno.