Trump vince anche contro il suo Gop chiamando a sé gli “indifferenti”
Roma. Dopo il secondo Super Martedì e i suoi responsi, che hanno accentuato le dominanze di Donald Trump e di Hillary Clinton, c’è una domanda in cerca di risposta: la centrale operativa di Hillary continua a giudicare, come faceva poche settimane addietro, la vittoria di Trump sul fronte repubblicano come la migliore opzione possibile? Oppure sta tornando sui propri passi e comincia a soppesare l’incognita nascosta sotto l’ormai probabile nomination di Trump? I risultati di martedì sono inoppugnabili: Trump ha preso la North Carolina, il Missouri, l’Illinois e ha spadroneggiato in Florida, casa politica di Marco Rubio che si è ritirato, concedendo l’Ohio al suo governatore John Kasich, lontano quanto a delegati acquisiti.
La sua campagna ha assunto i connotati della marcia trionfale, sull’onda di un entusiasmo popolare incontrollato e ingestibile, e ha cominciato a chiamare a raccolta, attorno alla crociata antistatalista di Trump, i famosi “indifferenti”, quelli che non votano e non s’interessano, sono scettici su tutto e tutti, sospettano il perenne inganno governativo e invocano solo la libertà di non essere scrutinati e soprattutto tassati. Trump è l’uomo che sa farli venire allo scoperto, e che importa se il suo progetto presidenziale è fin qui inesistente, fatte salve le raffiche di slogan con cui reagisce alle provocazioni dell’attualità. Trump sta modificando i numeri di adesione al processo elettorale come fece Obama nel 2008, portando alle urne un’America sfiduciata dal meccanismo partecipativo di scelta del leader. In termini diversi, ci risiamo: un’America bianca, benestante, infastidita dalle prospettive fiscali e spaventata dalle minacce alla sicurezza, si sta congiungendo con un’America povera o poco abbiente, spazientita dalle opportunità impallidite, stufa di non poter dar fondo ai desideri, nemica del numero crescenti di obblighi che ingabbiano il cittadino del XXI secolo. C’è un nervosismo anarchico e un fiotto di qualunquismo in questo entusiasmo turbolento che va riempendo la nazione al seguito di Trump. Ma le sue cifre assumono il peso di una verità: quella stessa America è lontana dall’idea di delegare a un onesto Partito conservatore, con la sua macchina e i suoi compromessi, il proprio disappunto sociale. Non è più tempo di casati e di bandierine al passare di una parata. E’ tempo di far sentire con voce stentorea le proprie ragioni, senza ammettere repliche. E poi di andarsi a fare una birra. E’ tempo di Trump e non più di famiglia Bush.
La Clinton si dovrà misurare con un avversario che non è la vincente espressione del Partito repubblicano, ma la sua nemesi, una derivazione considerata mostruosa da coloro ancora fedeli alla fazione (Trump ha appena annunciato che neppure parteciperà al prossimo dibattito tv lunedì sulla Fox: “Ne ho abbastanza”, ha detto con l’abituale irriverenza). Probabile che Hillary approfitterà di tanta divisione e che in molti sceglieranno di votarla o di non votare, piuttosto che sostenere il grande eretico. Il problema è che lei sta conducendo una campagna diligente, accorta, ma incapace di scaldare i cuori . Il suo avversario invece traversa il paese posseduto dalla febbre di un’impresa che somiglia a quella dei condottieri che ammira. Ha i tratti della scorribanda, è rumorosa, clamorosa, eccita e tocca le emozioni della gente. Se sia destinata a trasformarsi in una valanga o solo in un’improvvida grandinata d’autunno, ancora nessuno può veramente dirlo.
I conservatori inglesi