Se il jihad arriva a Giacarta
Untung Sangaji si guarda intorno per non allarmare gli avventori del ristorante, anche se il padrone e i camerieri hanno visto la sua faccia su giornali e tg: sanno bene chi è e cosa fa. Poi si alza in piedi, estrae sette caricatori dalle tasche dei chinos, allunga dal mollettone agganciato alla cintura una calibro 45 e piazza tutti i ferri del mestiere in bella vista sul tavolo di fòrmica scura: “Questa è la pistola con cui ho ucciso il terrorista – dice Untung – ed è l’unica che porto sempre con me. Ormai è vecchia, ma ci sono affezionato”. Fisso le orbite vuote della Signora con la Falce intarsiata sul calcio dell’arma, i faretti soffusi del ristorante riflessi sull’impugnatura di madreperla. Sì, Untung Sangaji è decisamente diverso da tutti gli altri ingegneri che conosco.
Intorno alle 10 e 40 del 14 gennaio scorso un uomo di nome Ahmad Muhazan si fa esplodere di fronte allo Starbucks del Sarinah, un enorme centro commerciale a più piani nel cuore di Thamrin, il quartiere degli affari di Giacarta. L’esplosione rompe le vetrate, gli avventori corrono all’interno spaventati, qualche secondo dopo una motocicletta si stacca dal traffico puntando dritta contro il posto di polizia che separa le carreggiate del viale – meno di cinquanta passi dal caffè. Dian Juni Kurniadi, il ventiseienne a bordo della moto, si fa esplodere contro il gabbiotto, i chiodi della bomba artigianale trafiggono i due poliziotti di guardia e la folla del giovedì mattina commette l’errore di concentrarsi vicino ai luoghi delle due esplosioni: pochi minuti dopo, da un’auto nel parcheggio del Sarinah, sbucano altri due jihadisti, Sunakim e Muhammad Ali, che si mettono a sparare contro i passanti e i clienti dello Starbucks, e vengono infine abbattuti dagli agenti arrivati sul posto. Bilancio finale: 8 morti, tra cui i 4 attentatori, e 23 feriti. Durante la giornata si diffondono voci su altre sei esplosioni in diverse zone della città, tutte smentite dal governo. L’attacco di Thamrin è il più grave attentato terroristico subìto dall’Indonesia negli ultimi sette anni. Qualche ora dopo arriva la rivendicazione dell’Is: lo Stato islamico ha appena dichiarato guerra alla nazione musulmana più popolosa del pianeta.
“Hanno scritto che quella mattina eravamo lì per caso, ma non è vero”, dice Untung. Lui e il suo partner fanno parte di una task force antiterrorismo della polizia di Giacarta specializzata in “operazioni silenziose”. Vestono in borghese, si muovono sempre in coppia e si trovavano in zona perché nei pressi di Thamrin c’era anche il presidente indonesiano Joko Widodo. “Mio fratello mi aveva chiamato per incontrarmi, voleva festeggiare una promozione sul lavoro, ma gli ho chiesto di rimanere a Thamrin, senza spiegargli che alcuni minuti prima l’intelligence aveva individuato nelle vicinanze il numero di telefono di un sospetto terrorista. Così siamo andati tutti e tre a prendere un caffè nei paraggi, evitando lo Starbucks perché c’è il divieto di fumo, e appena abbiamo sentito la prima esplosione ci siamo messi a correre verso Sarinah. All’inizio sembrava lo scoppio degli pneumatici di un grosso camion, ma subito dopo c’è stata una seconda esplosione e abbiamo capito che era un attentato. Ho telefonato al mio superiore e gli ho detto che stavamo entrando in azione”. Tra passanti, ambulanze e prime auto della polizia, Untung nota nel parcheggio dello Starbucks un uomo con uno zaino, lo vede estrarre una pistola ma ha qualche attimo di esitazione perché teme che sia un altro poliziotto in borghese. L’uomo esplode diversi colpi, Untung e il suo partner saltano il muretto del compound per raggiungerlo: “Siamo equipaggiati con armi antiquate – dice il compagno – e io sono più abituato a lavorare dietro le quinte, così mentre Untung avanzava io strisciavo dietro le auto e miravo ai piedi e alle gambe dei terroristi. Ho colpito il primo, poi Untung lo ha ferito a una spalla e quello è caduto lasciando scivolare una granata”. “Subito dopo ho colpito il secondo, – prosegue Untung – e quando li ho visti a terra ho contato fino a cinque. Poi ci siamo avvicinati e abbiamo sparato a entrambi il colpo di grazia”.
L’ingegnere Untung Sangaji, specializzato nel disinnesco di ordigni esplosivi, è entrato in polizia anni fa. Poco dopo l’arruolamento è stato reclutato dal Dipartimento 88, il bureau antiterrorismo indonesiano. Oggi continua a fare l’istruttore per i poliziotti del Dipartimento, ma lui e il suo partner – che, così come un terzo agente presente sulla scena, preferisce non essere nominato – alludono a qualche dissapore con la nuova linea di comando. Il Dipartimento 88 non gradisce le task force con le altre forze di polizia, non tollera di essere secondo a nessuno, specialmente quando si tratta di ex operativi con la fama di teste calde e qualche problema disciplinare alle spalle: “Il Dipartimento 88 è nato nel 2003, dopo gli attentati di Bali in cui morirono 202 persone”, spiega al Foglio Sidney Jones. Americana, sulla cinquantina, Jones ha studiato arabo al Cairo e in Tunisia e oggi dirige l’Ipac (Institute for Policy Analysis of Conflict), il più importante think tank sulla sicurezza del sudest asiatico, con sede a Giacarta. “Si tratta della sezione più professionale e meglio addestrata della polizia indonesiana, e anche se negli ultimi due anni si sono sollevate legittime lamentele sull’elevato numero di vittime che rimangono sul campo dopo le loro operazioni. Stanno svolgendo un lavoro molto efficace sia nella caccia ai responsabili di attentati sia sul fronte delle informazioni. La loro sezione d’intelligence supera tutte le altre agenzie indonesiane, inclusa l’agenzia centrale di stato”. Gli agenti del Dipartimento 88 sviluppano un orgoglio professionale che raggiunge lo zenit tra il settembre 2009 e il marzo 2010, quando rintracciano e uccidono in due raid Noordin Mohammad Top e Dulmatin, considerati le menti degli attentati agli hotel di Giacarta nel 2009 e dell’attacco di Bali del 2002. Queste operazioni e l’arresto di alcuni leader coincidono con il declino di Jemaah Islamiyah, il gruppo terroristico legato ai talebani e ad al Qaida diffuso in tutta la regione. I jihadisti freddati a Sarinah da Untung e soci non erano le ultime retrovie di Jemaah Islamiyah: l’ascesa dello Stato islamico in medio oriente sta provocando una reazione a catena, gli equilibri tra i fondamentalisti del sudest asiatico sono cambiati e alcune tracce lasciate dai terroristi di Giacarta conducono direttamente a novemila chilometri di distanza, in Siria.
Secondo il dossier stilato da Sidney Jones e dallo staff Ipac subito dopo gli attentati di Thamrin, sono tre i leader radicali indonesiani che oggi combattono in Siria per lo Stato islamico: tutti e tre condividono il sogno di instaurare un Califfato nel “Nusantara” – “Arcipelago” in lingua malay, un’espressione geografico-religiosa che indica Indonesia, Malaysia, la città stato di Singapore e alcune zone di Thailandia e Filippine – e ognuno di loro intrattiene rapporti con forze jihadiste già presenti nell’area.
Bahrumsyah, alias Abu Ibrahim, è stato il primo indonesiano a unirsi all’Isis e oggi guida Katibah Nusantara (“Forze dell’Arcipelago”), una divisione composta da indonesiani e malesiani che fino a poco tempo fa combatteva a Shaddadi, la città a circa 320 chilometri da Raqqa recentemente circondata da curdi e forze siriane democratiche. “Tra i tre, Bahrumsyah è l’unico ad avere un rapporto diretto con i vertici di comando dell’Isis, ha dato grandi prove di leadership e ha contatti con diversi predicatori radicali in Gran Bretagna, tra i primi a sostenere lo Stato islamico”, spiega Sidney Jones. “Inoltre, probabilmente è anche l’unico ad avere accesso diretto ai fondi dell’Isis, ipotesi confermata dal fatto che nell’arco del 2015 ha inviato oltre centomila dollari a un fondamentalista residente qui, nell’isola di Java, con l’ordine di acquistare armi e programmare attentati. Per l’Indonesia è una somma notevole”.
Sono state le Forze dell’Arcipelago a organizzare gli attacchi di Thamrin? Sembra di no, perché a complicare la situazione tra gli gli islamisti indonesiani c’è uno scisma: nell’aprile del 2015 Abu Jandal, uno dei luogotenenti di Bahrumsyah, accusa il suo capo di corruzione, protesta con la commissione provinciale della Shari’a e chiede di essere nominato comandante. La commissione respinge le accuse, lo imprigiona per un mese, e dopo avere scontato la pena Abu Jandal si porta dietro diverse decine di combattenti e fonda Katibah Masyaariq (“Forze dell’est”), una nuova brigata di guerriglieri del sudest asiatico con base a Homs. Ma l’intelligence indonesiana esclude la responsabilità diretta delle Forze dell’est nell’attentato di gennaio a Giacarta: poche ore dopo le esplosioni di Thamrin le indagini si concentrano sui contatti tra i terroristi uccisi da Umtung e colleghi e un terzo personaggio indonesiano che si è unito allo Stato islamico, Bahrun Naim, maestro del reclutamento online.
Bahrun Naim combatte a Manbij, vicino ad Aleppo, e intanto su un gruppo jihadista creato su Telegram incoraggia i “lupi solitari”, invia messaggi criptati e istiga a commettere attentati in Indonesia, come quelli sventati dal Dipartimento 88 tra Natale e Capodanno 2016. A differenza di Bahrumsyah, Bahrun Naim non può accedere direttamente ai fondi dell’Isis, ma è riuscito comunque a spedire circa diecimila dollari a Giacarta e in altre zone dell’isola di Java: “Ci sono molte frodi che un hacker esperto può mettere a segno sul web per racimolare denaro, e Bahrun Naim potrebbe essere uno dei jihadisti che hanno beneficiato di questa forma di finanziamento. Alcuni indizi indicano che a un certo punto del processo di trasferimento potrebbe essere stata usata una carta di credito clonata o rubata, ma non abbiamo conferme”, racconta Jones. Una settimana dopo gli attentati, però, Bahrun Naim pubblica online un video nel quale smentisce il suo coinvolgimento e gli stessi investigatori del Dipartimento 88 ammettono l’errore: tra i quattro terroristi di Thamrin e il cyberjihadista non c’è nessun collegamento, tutti i piani finanziati con il suo denaro sono già stati sventati. Con il passare dei giorni emergono invece molti contatti diretti con un’altra figura chiave, un personaggio che pur avendo giurato fedeltà allo Stato islamico non ha mai lasciato il sudest asiatico, si trova dietro le sbarre di una prigione di Java Centrale e da anni è ritenuto il cervello della piovra a molti tentacoli del fondamentalismo indonesiano: Aman Abdurrahman.
Ad Aceh (territorio speciale all’estremità settentrionale dell’isola di Sumatra) c’è un campo nel quale si è addestrato uno dei terroristi uccisi da Untung, ed è stato fondato da Abdurrahman. I predicatori pro Isis con i quali gli altri attentatori avevano preso contatto tra il maggio e l’ottobre 2015 sono tutti adepti di Jak (Jamaah Ansharul Khilafah, “Partigiani del Califfato”), il gruppo che in un incontro riservato in un hotel di Java est nel novembre del 2015 ha riunificato tutti gli schieramenti favorevoli al Califfato dell’arcipelago. Un summit di cui Abdurrahman è stato l’abilissimo tessitore. Tra le tre brigate indonesiane che combattono in Siria, i Partigiani del Califfato hanno un filo diretto con le Forze dell’est di Abu Jandal, ed è per questo che secondo gli analisti dell’Ipac la pericolosità dell’attentato di Giacarta travalica il numero effettivo delle vittime: le Forze dell’arcipelago di Bahrumsyah e il cyberterrorista Bahrun Naim non vogliono cedere all’ultimo arrivato la supremazia del jihad nella regione. E stanno già preparando nuovi attacchi contro l’Indonesia.
La società indonesiana si è stratificata attraverso secoli di migrazioni interne tra le isole. Girare per le strade di Giacarta significa imbattersi nei canti del muezzin sparati dagli altoparlanti mentre qualche via più in là gli indonesiani di etnia cinese celebrano le proprie festività. Dagli scantinati fatiscenti del vecchio quartiere olandese fiotti di rock e techno suggeriscono una scena underground segreta, sfrenata. Nei locali alla moda, arredati come giardini di Bali, le ragazze tatuate in minigonna e piercing raccontano senza pudore agli amici maschi la circoncisione femminile subìta appena nate (“la praticano le levatrici, è un’usanza dei villaggi da eliminare con l’istruzione”), poi si scagliano contro il “rischio arabizzazione” e rilanciano l’hashtag #KamiTidakTakut (#noinonsiamospaventati). Sui social network circola una vignetta in cui il califfo Abu Bakr al Baghdadi invita i terroristi di Thamrin a combattere in Siria, mentre quelli fraintendono e finiscono uccisi davanti al centro commerciale Sarinah. Piove la mattina, il pomeriggio e la sera, a orari regolari. L’umidità rallenta la circolazione del sangue, sfuma i contorni della capitale più islamica del mondo tra volti giavanesi, le facce da fachiro dei balinesi e quelle dei cinesi arrivati qui dal Guangdong cinque secoli fa. La pioggia si infiltra nel terreno, causa smottamenti, ogni anno Giacarta sprofonda tra i 5 e i 10 centimetri e la zona nord si trova già quasi per metà sotto il livello del mare. Il governo lancia piani per sifonare le acque sotterranee e scolmarle, progetta una gigantesca diga per proteggere i quartieri settentrionali. Intanto, vuole approvare nuove leggi contro le infiltrazioni jihadiste.
Nell’Indonesia degli ultimi quindici anni c’è una sola persona alla quale si può applicare la definizione di “spymaster”, e questa persona si chiama Ansyaad Mbai. L’ex capo del Dipartimento 88 è soprattutto un intellettuale, un osservatore che ha descritto l’albero genealogico del jihadismo del sudest asiatico dal 1949 a oggi nel libro “The New Dynamics of Terror Networks in Indonesia”. “Il punto cruciale di cui deve occuparsi la nuova legge sul terrorismo è che bisogna trasformare in reato la pratica dell’hate speech, diffusa in molte moschee, basata sulla dottrina del takfir, la pratica con la quale si indica chi è infedele anche tra gli stessi musulmani”, dice al Foglio Ansyaad Mbai mentre sorseggia un tè nell’ufficio dell’agenzia di sicurezza privata che guida oggi. “Nella mia esperienza, per contrastare l’eventualità di attentati terroristici bisogna iniziare con l’individuazione del terrorista e del suo ambiente, che è sempre quello in cui si predica questa dottrina, che proviene dal mondo arabo. E’ un’interpretazione dell’islam a mio avviso errata, che rende legale uccidere chi viene bollato come ‘kafir’. So che approvare la legge non sarà facile, la discussione in Parlamento è molto combattuta, ma è su questo punto che si determina se l’Indonesia cadrà o resisterà”. I contrasti politici sulla riforma, spiega Mbai, provengono dal trauma che ha lasciato la sanguinaria dittatura di Suharto nella società, e dalla diffidenza di tutte le formazioni politiche musulmane, anche le più moderate. I partiti islamici hanno giocato un ruolo decisivo nell’opposizione al dittatore e ora temono che le nuove norme possano ridurre la libertà di parola e di predicazione, inoltre nutrono dubbi sui programmi di “deradicalizzazione” in atto nelle carceri indonesiane. “Ci proviamo, ma i risultati non sono soddisfacenti. Io stesso ho condotto qui ulema ‘moderati’ dalla Giordania, dall’Egitto e dalla Siria per discutere con i leader estremisti incarcerati. Discutono di questioni teologiche, poi ognuno rimane della propria opinione e i jihadisti continuano a indicare chiunque e a etichettarlo come ‘kafir’. La deradicalizzazione non ha senso se i terroristi non si sentono sotto pressione, e in uno stato democratico come il nostro la pressione si esercita attraverso la legge. La riforma deve permettere all’intelligence e alla polizia di individuare gli estremisti prima che colpiscano”.
L’unico tema su cui Rafendi Djamin concorda con Ansyaad Mbai è l’inutilità dei programmi di deradicalizzazione. Djamin appartiene alla stessa generazione di Mbai e si è forgiato nella lotta politica contro la dittatura di Suharto. Oggi è l’avvocato alla guida di Hrwg (Human Rights Working Group), una federazione di ong che si occupano di diritti umani: “No, il programma non sta funzionando – dice l’avvocato – e questo perché non viene affidato a veri professionisti. Si tratta di colloqui senza assiduità, poco professionali e senza budget. In carcere gli estremisti diventano più preparati e intelligenti. Prendiamo Bahrun Naim: era in carcere, era stato ‘deradicalizzato’. Appena è uscito è corso in Siria per unirsi allo Stato islamico. L’altro problema è il funzionamento dei penitenziari e la corruzione: gente come Aman Abdurrahman ha accesso a laptop, cellulari e connessione internet. Puoi guidare un gruppo jihadista dalla tua cella”. Per Rafendi Djamin, però, la riforma in discussione nel Parlamento indonesiano non è la soluzione: “Io e la mia organizzazione siamo contrari. Si può rispondere agli attentati di Thamrin con le leggi già esistenti, invece qui si discute di estendere i poteri di intelligence e polizia. Oggi un sospetto può essere trattenuto per due giorni e il termine si può estendere fino a una settimana, ma in Parlamento si discute di allungarlo fino a un mese di detenzione senza processo. Il rischio di un aumento delle vittime di tortura è evidente, già nel 2008 un inviato speciale della commissione Onu contro le torture aveva visitato i penitenziari indonesiani e raccomandato di ridurre i termini di custodia preventiva. Adesso con un termine di 30 giorni può succedere di tutto, e inoltre si parla di consentire all’intelligence di mettere a segno gli arresti. L’intelligence deve analizzare le informazioni, stilare profili e passarli alla polizia, arrestare i sospetti non è il loro mestiere. In Indonesia abbiamo già vissuto questa situazione per trent’anni: cosa succede se questi poteri non vengono impiegati solo contro i jihadisti ma anche per reprimere qualsiasi gruppo sgradito al governo?”.
La dialettica della società indonesiana oscilla da una posizione all’altra. Le colonne di umidità che salgono dall’asfalto e dai canali di Giacarta confondono le idee, certe posizioni da occidentale diventano più sfumate. Fornendo più poteri a uomini come Untung si possono proteggere i colori balinesi, le ragazze sorridenti in piercing, i musicisti, i bevitori del fine settimana nei club di Glodok, i lavoratori delle fabbriche di abbigliamento occidentali e il diritto di parola che il più grande stato musulmano del mondo garantisce agli ex capi dell’intelligence e agli avvocati per i diritti umani? “Dopo che ho ucciso l’ultimo terrorista mi sono avvicinato a un uomo a cui avevano sparato alla testa – racconta Untung – e ho cercato di tenerlo sveglio mentre arrivavano i soccorsi. ‘Resta con me’, gli dicevo, ‘ti amo e sei salvo, resta qui’”. Forse tra il delirio per lo choc e il dolore, la vittima ha rivisto nel volto di Untung Sangaji quello dei suoi antenati, pirati delle Molucche spietati e fieri che tenevano testa a olandesi, britannici e portoghesi. Forse ha visto la faccia dell’uomo che lo stava salvando. Non so rispondere.