Belgio, storia di una resa senza gloria
Il disimpegno e l’elevazione del multiculti a dottrina di stato non salvano dalle bombe islamiste. E’ il paese che ha fatto dell’accoglienza un vanto. Il risultato? 553 suoi cittadini sono andati a combattere per il Califfato.
Roma. Cambia il nome ma non la sostanza: che si chiami al Qaida o Stato islamico, l’islamismo radicale tiene sotto scacco da quindici anni le capitali d’Europa. Prima Madrid, poi Londra, quindi Parigi. Ora Bruxelles. Se nei primi tre casi si trattava di colpire al cuore paesi coinvolti nella grande battaglia per la democrazia da esportare o per il jihadismo da annientare, quanto accaduto ieri tra l’aeroporto di Zaventem e le stazioni della metropolitana a due passi dal quartiere comunitario manda in frantumi il pensiero (assai diffuso) secondo cui a essere presi di mira sono soltanto gli imperi che mandano le truppe sul terreno, sbandierando tra fanfare l’engagement militare in nome della liberazione dei popoli preda dell’integralismo. Il Belgio è il modello del paese che da decenni ha rinunciato a giocare un ruolo sulla scena internazionale. Non si impegna in nulla, ancora schiavo dei traumi di cent’anni fa, quando i tedeschi usarono le sue campagne come autostrada verso Parigi, e tuttora impegnato a censurare Tintin perché reo di ricordare l’esperienza colonialista di Leopoldo in Congo. Dalla fine della guerra è rimasto acquattato, in disparte, lavorando più di teoria che di pratica, contribuendo a edificare il sogno europeista e lo smantellamento di cortine e frontiere, accettando di ospitare la capitale dell’Unione che avrebbe garantito prosperità per sessant’anni. E’ il paese che ha fatto dell’accoglienza un vanto, elevando la dottrina multiculti a simbolo di un nuovo mondo pacifico, scambiando la concessione d’ogni permesso per edificare moschee in cambio di petrolio saudita (si veda il Foglio di ieri) per tenere a galla la depressa economia post mineraria belga.
Circa il venti per cento dei brussellesi è oggi musulmano, interi comuni della capitale sono stati consegnati alle comunità islamiche: Molenbeek è il caso più eclatante. Fortini che si sono trasformati in città a se stanti, con gli imam a fare da punto di riferimento non solo spirituale, ma anche politico. Sono sessantotto le moschee legali nella sola Bruxelles, circa duecentocinquanta in tutto il paese. La più grande, emanazione diretta di Riad, si trova nel Parco del Cinquantenario, a due passi dal Parlamento europeo. Solo tre giorni prima delle stragi parigine dello scorso novembre, il ministro dell’Interno, Liesbeth Homans, aveva annunciato che presto sarebbe stato dato il via libera all’apertura di cinquanta nuove moschee, perché “meglio un centro autorizzato che un oscuro garage”. Il ministro spiegava che così “si potranno monitorare le attività dei cittadini musulmani e sarà possibile di conseguenza stabilire un dialogo proficuo tra il governo e i tanti imam attivi nel paese”. Il problema è che questi imam – e lo scriveva persino l’Onu – sono formati alla scuola wahabita, che invita i padri di famiglia a non mandare a scuola i figli perché si “mischierebbero” con i non musulmani. Nessun paese quanto il Belgio ha donato alla causa del califfo Abu Bakr al Baghdadi tanti combattenti: su una popolazione complessiva di 11 milioni d’abitanti, lo scorso dicembre erano attivi in Siria e Iraq ben 553 sui cittadini, numero in crescita mese dopo mese. L’orientalista francese Olivier Roy scriveva nel 2008 che era esagerato enfatizzare una presunta minaccia islamista in Europa e che la chiave per una convivenza pacifica consisteva nel favorire “la trasmissione di una religione culturalmente integrata”. Ergo, fare il possibile per soddisfare le esigenze religiose delle comunità non autoctone, che così avrebbero potuto inserirsi nel tessuto europeo, arrivando a condividerne i valori fondanti e spegnendo sul nascere ogni proposito di rivolta. Otto anni dopo, pure Roy parla di “fallimento” di quel modello che si è rivelato più utopico che concreto.