Consiglieri, terrorismo, Nato: prende forma l'isolazionismo di Trump
New York. Qualche ora dopo gli attentati di Bruxelles, Donald Trump ha spiegato a Fox News la sua ricetta antiterrorismo: “Chiuderei le frontiere finché non abbiamo capito cosa sta succedendo. Dobbiamo essere scaltri qui negli Stati Uniti. Stiamo facendo entrare gente senza una vera documentazione, non sappiamo da dove vengono, non sappiamo chi sono”. Durante il programma Today ha aggiunto che, da presidente, “non permetterei a certa gente di entrare senza una documentazione assolutamente perfetta” e ha reiterato la sua posizione favorevole al waterboarding e ad altre forme di tortura per i terroristi: “Se dipendesse da me il waterboarding sarebbe ammesso”.
La chiusura delle frontiere, l’aggressività nei metodi di sorveglianza e negli interrogatori, la ricostruzione dell’esercito a scopo deterrente sono i pilastri di una sottospecie di dottrina isolazionista che Trump ha fin qui evocato, ma non ha mai svolto. Negli ultimi giorni il frontrunner repubblicano ha iniziato a delineare i tratti della sua politica estera, rivelando i nomi di alcuni dei suoi consiglieri e rispondendo alle domande dell’editorial board del Washington Post. Gli adviser del candidato sono di profilo piuttosto basso, si tratta di esperti meno qualificati di quelli che consigliano l’avversario, Ted Cruz, che pure ha coinvoto nella campagna un propalatore di teorie del complotto come Frank Gaffney. Il team, coordinato e probabilmente reclutato dal senatore Jeff Sessions, snodo centrale nell’organigramma del trumpismo, include Joseph Schmitz, ex ispettore generale del dipartimento della Difesa sotto George W. Bush poi rimosso e finito nel ruolo di funzionario nell’agenzia di contractor Blackwater. Il padre di Schmitz era un deputato repubblicano e membro della John Birch Society, associazione della destra radicale. Carter Page è un manager che ha lavorato a lungo nel settore energetico e ha additato l’espansionismo della Nato dopo la fine della Guerra fredda come causa originaria dell’invasione russa dell’Ucraina e della crisi che ne è derivata, una classica argomentazione dei politologi di scuola realista. Dal mondo dell’energia viene anche George Papadopoulos, ex consigliere di Ben Carson pressoché sconosciuto nei circoli della politica estera. Più noto Walid Phares, esperto di relazioni internazionali cristiano maronita che quattro anni fa è stato anche consigliere di Mitt Romney, non senza sollevare qualche perplessità a proposito di presunti coinvolgimenti con certe milizie cristiane in Libano. Completa la squadra il generale Keith Kellogg, che comandava la 82esima divisione aviotrasportata e ha avuto un ruolo di rilievo nell’autorità provvisoria di Baghdad dopo l’invasione del 2013.
Al Washington Post, Trump ha ritrattato l’idea di inviare 20 e 30 mila soldati per sconfiggere lo Stato islamico, preferendo invece “mettere una tremenda pressione sui paesi vicini” e ha fatto una lunga tirata contro la Nato, alleanza che “ci costa una fortuna” e offre ben poca protezione: “Il concetto della Nato è buono, ma gli Stati Uniti devono essere aiutati. Nessuno ci sta aiutando”. E’ a questa visione scettica sulle alleanze sopranazionali e sul coinvolgimento diretto dell’America nel mondo che Trump attribuisce il fatto che è “al primo posto nei sondaggi”, misura unica e costante delle sue prese di posizione. Trump è anche finito nel radar della politica estera per il discorso tenuto all’Aipac, la più importante associazione pro Israele d’America. Nel primo intervento tenuto con l’odiato teleprompter, il marchio dei politici “all talk, no action”, Trump ha affermato con decisione fin qui inedita il totale sostegno a Israele, promettendo la revoca dell’accordo nucleare con l’Iran: “Quando sarò presidente, l’era in cui Israele è trattato come un alleato di seconda classe finirà al mio primo giorno”. Il discorso di Trump è stato accolto con calore, anche se ieri il presidente dell’Aipac, Lillian Pinkus, si è dovuta dissociare dai suoi attacchi a Obama, genere politico non ammesso in un contesto dove candidati e presidente sono invitati a parlare del rapporto con Israele, non a fare comizi. Trump ha detto che Obama “potrebbe essere la cosa peggiore capitata a Israele”. Il pubblico ha applaudito.