Simbologia e non solo. Perché lo Stato islamico ha colpito il Belgio
Perché in Belgio? Non c’è una sola risposta. Nella mitologia jihadista il valore simbolico dell’attacco a pochi metri dalle istituzioni dell’Unione europea e in uno fra gli aeroporti più battuti dai Capi degli Stati è secondo solo al drappo nero che lo Stato islamico vuol far sventolare sulla Cupola di San Pietro a Roma. La simbologia è funzionale alla propaganda: se ti dimostro che reagisco all’arresto di Salah Abdesalam con capacità di coordinamento fra il centro di Bruxelles e l’aeroporto, con disponibilità di armi e di esplosivo, con basi logistiche per proteggere gli attentatori, con denaro per sostenerli negli spostamenti e con mezzi a operare, vuol dire che Allah è grande e che puoi unirti a noi, perché colpiamo al cuore i “Crociati” (non importa se tutti laicisti)!
In Belgio perché è uno degli stati europei più sguarniti e più vulnerabili. Quando scelte politiche dissennate in materia di sicurezza e di integrazione si sedimentano nel corso degli anni è ingenuo sorprendersi se la somma che viene tirata una volta per tutte è una somma pesante. Sul fronte della sicurezza il Regno, nonostante le dimensioni non estese, paga l’estrema articolazione della sua struttura istituzionale; la divisione fra fiamminghi e valloni non si limita a creare problemi nella formazione del governo federale: rende difficili le comunicazioni fra le polizie. Sembra un’inezia, ma provate in un territorio piccolo a ragionare e a comunicare con rapidità in idiomi differenti: il deficit non è solo di tempo, bensì pure di comprensione. I servizi di informazione belgi hanno una tradizione di qualità, oggi non del tutto all’altezza del passato: il guaio è che hanno troppi interlocutori, e quasi sempre si tratta dell’equivalente delle nostre polizie locali, col borgomastro-sindaco a capo; c’è da meravigliarsi se le informazioni non vengono loro fornite perché non ci si fida di chi è chiamato a gestirle? Se non avviene lo scambio di notizie, chi dovrebbe avere un ruolo operativo non conosce con precisione i soggetti realmente pericolosi in quartieri della Capitale belga nei quali più del 40 per cento della popolazione è musulmana.
L’essere sede di istituzioni europee paradossalmente non ha promosso una strategia di prevenzione del terrorismo. L’attenzione dei vari corpi di polizia è stata orientata nel senso di trasmettere un’apparenza di tranquillità: ordine pubblico il più possibile sotto controllo e criminalità da strada da ridurre al minimo per far corrispondere il centro città al quadretto oleografico di isola felice. Non ha funzionato gran che su quest’ultimo fronte: ci sono zone di Bruxelles nelle quali di sera si ha più timore a passeggiare che in qualche angolo degradato di Roma a ridosso del GRA. Ma certamente sono mancati finora interscambio informativo, collaborazione operativa e capacità di organizzare i servizi di prevenzione in funzione della tipologia della minaccia: quanto accaduto ieri era prevedibile, e infatti era stato previsto. Prevedibile non vuol dire in automatico prevenibile: vuol dire fare quello che è nelle umane capacità. Tutti concordano che non è stato fatto.
L’integrazione mancata è l’altro aspetto della tragedia. Per decenni, a partire dall’immigrazione degli anni 1960, soprattutto dal Marocco, la pace sociale in quartieri a elevata presenza islamica è stata garantita da un patto non scritto: non ingerenza delle istituzioni federali e territoriali in cambio della riduzione al minimo dei problemi da parte delle comunità in origine straniere. Se oggi i vari Salah Abdesalam sono tutelati dai vicini del quartiere al momento dell’arresto - ricordando le scene di protezione del boss catturato in aree di camorra - è perché si è permessa la radicalizzazione di Molenbeek, e non solo di esso. Perfino in Belgio doveva essere noto che da Molenbeek sono passati e con Molenbeek hanno avuto a che fare taluni concorrenti dell’11 settembre 2001, di Atocha a Madrid nel 2004, e della strage al Museo ebraico di Bruxelles nel 2014. Eppure nulla è stato fatto per farla uscire dalla dimensione di zona franca. Nella Capitale belga non è accaduto solo con questo quartiere.
Che fare? Anzitutto abbandonare le illusioni. Il deficit di cultura della sicurezza e dell’integrazione non è colmabile in poche battute. Il Belgio e la sua Capitale sono destinati a restare nell’obiettivo: facciamo tutti gli scongiuri, ma come non è da menagramo prevedere che un sasso lanciato dal quarto piano prima o poi piomba a terra e se passa qualcuno gli fa male, così è irrealistico sostenere che gli attentanti di ieri saranno gli ultimi in terra belga. In Italia siamo abituati a non valutare a pieno i risultati raggiunti negli anni di lavoro per la sicurezza: con tutti i limiti del nostro sistema – che non sono lievi – la nostra cultura della prevenzione è incomparabilmente superiore a quella di tanti Stati europei, soprattutto di quella belga. Alcuni strumenti introdotti in Italia in passato, tuttora operativi, potrebbero fornire qualche spunto: per esempio il C.a.s.a. – Comitato di analisi strategica antiterrorismo. E’ un tavolo permanente tra la polizia giudiziaria e i servizi di intelligence, che fa condividere e valutare congiuntamente le informazioni sulle minacce terroristiche interne e internazionali. Costituito nel maggio 2004 dopo una fase sperimentale, è composto dal capo dell’Ucigos, che lo presiede, da ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza e da rappresentanti di tutti i Servizi; nel decennio abbondante di vita, ha reso sistematico lo scambio di notizie e la collaborazione operativa, tendenzialmente senza sovrapposizioni, con effetti positivi nel contrasto, ma prima ancora nella prevenzione. E’ vero, il Belgio è uno Stato sovrano; ma una proposta del nostro Governo di trasposizione dell’esperienza del C.a.s.a. in sede europea avrebbe ricadute nei singoli Stati e favorirebbe quella circolazione di notizie che, realizzata in contesti più ampi, non avrebbe più senso nei rapporti fra comunità diverse della stessa (piccola) Nazione. L’origine belga di Gilles de Kerchove, il coordinatore antiterrorismo dell’Ue, potrebbe costituire uno snodo interessante in questa prospettiva, e darebbe finalmente significato ai poteri che in teoria ha e alla posizione che gli è riconosciuta (come i Commissari Ue, siede in permanenza al tavolo del Consiglio dei 28).
Se ne esce se gli Stati europei più attrezzati per cultura e capacità in questa direzione – l’Italia è fra essi – decidono di svolgere, ancor più di quanto è accaduto finora, un ruolo di guida e di impulso. E’ sconsigliabile proclamarlo; è necessario realizzarlo. Partendo dalla spinta per l’attuazione di quelle direttive Ue sui controlli negli aeroporti, oggi in vigore per i viaggi dall’Europa agli Usa, ma non per i viaggi interni all’Ue, perché il Parlamento europeo ha a suo tempo ritenuto prevalente la tutela della privacy. I morti dilaniati dalle bombe di Bruxelles, e prima ancora quelli di Parigi e di tanti altre città, gridano che il tempo del gioco è terminato.