La sciocca parodia del bellicismo mediatico
Le guerre non si fanno con i commenti dell’opinione pubblica. Può essere che il nuovo millennio inventi altre forme storiche, ma sulle chiacchiere giornalistiche e i sentimentalismi come risposta agli atti di guerra non giurerei. Gli abbiamo detto che non avranno il nostro odio, e hanno apprezzato, immagino. Gli abbiamo detto che continueremo a vivere come viviamo, e ne sono lieti. Gli abbiamo detto che siamo in guerra, e devono avere sorriso. Gli abbiamo detto che ci apprestiamo a creare una Fbi europea, che vogliamo coordinare le informazioni, e hanno pensato a nuovi compiti per i banchieri centrali. Gli stiamo dicendo una novità, che il problema è la debolezza dello stato in Belgio, e devono aver riguardato le immagini di folle multiculturali che inveivano a Molenbeek contro la polizia belga durante l’arresto di Salah Abdeslam in uno dei territori perduti della monarchia di Bruxelles, perduti come i territori della Repubblica in Francia. Uno di noi gli ha detto e ci ha detto pensosamente che bisogna far emergere l’islam europeo, come non fosse emerso e con quanta autorità, se necessario anche armata, magari trasportando carrelli in aeroporto con una sola mano guantata di nero. Il comico di passaggio che fa opinione per gli imbecilli ha detto che i raid occidentali hanno fatto mille morti civili nei territori dello Stato islamico, dunque dobbiamo aspettare che si pareggi il conto occhio per occhio nella prossima serie di attentati. A meno che il consigliere Pd della Spezia si sbrighi a tagliare, come ha detto, qualche testa islamica, rimescolando ancora la contabilità e complicando le cose.
Non siamo in guerra e non lo saremo finché durerà la parodia del bellicismo mediatico, del moralismo autodenigratorio, del rifiuto di identità di linearità e di logica che si esprime nella disdetta riprodotta dopo ogni attentato, nelle frasi fatte, nello spezzettamento dei ruoli e delle responsabilità, nei toni vendicativi o assertivamente pietosi verso i carnefici, toni sempre ripetitivi, insulsi. Fiori, candeline, buone intenzioni, ma niente opere di bene. Nel nostro caso, in relazione all’islamismo armato e al suo bacino immenso di traffico etnico religioso ideologico-purista, fenomeno che non è genericamente terrorismo, non essere in guerra vuol dire apprestarsi a subirla ancora. La corrosione mista a sottomissione è destinata a essere lenta. Le reazioni tra le più codarde e le più turpi. Più aspra la guerra domestica di posizionamento di fronte alle paure e allo spirito di difesa e protezione reclamati dal cittadino comune. Se siamo in guerra bisogna che si identifichi un nemico, lo si citi per nome. Che le politiche di difesa, fiscali e di identità-opposizione verso l’altro, l’altro geografico e politico, siano coordinate rispetto a un fine unico per tutti, sia per chi concede sia per chi non concede il suo odio al jihadista in azione: lo sradicamento dell’esercito combattente nato nel violento risveglio islamista nel medio oriente e nel bacino del Mediterraneo e nel centro stesso dell’Europa, nelle città, nelle periferie, nei territori perduti.
Obama era a Cuba a celebrare l’arcobaleno caraibico. Putin aveva appena ritirato la mano dopo la sveltina di convenienza pro Assad. Erdogan aveva incassato l’assegno della paura, mentre l’Europa discuteva di Brexit di Grexit e di equilibrio monetario nella depressione deflazionaria. Il destino della Libia è sempre affidato alla prodigiosa capacità di autodeterminazione del valoroso popolo tripolitano e cirenaico. Va avanti il boicottaggio di Israele e dei professori non pacifisti. Ferve la rinascita economica iraniana, tra teocrazia e diplomazia. Si attendono nuove espressioni di sé del famoso islam moderato. E’ inutile commentare. Discettare. Colorire. Aggiungere. Divagare. Si sa tutto. La guerra è in corso. Non sono mafie, quelle islamiche. Non servono oltre la misura del giusto infiltrati e pentiti. Serve agire dove tutto nasce, come è stato autorevolmente suggerito anche in Italia, e opporre alla forza islamista nelle sue diverse manifestazioni, fuori e dentro i confini dell’occidente, una soverchiante forza, fatta di politica diplomazia e strategia militare, capace di configurare qualcosa che sia simile, finché non è troppo tardi, a una vittoria dell’amico sul nemico. Per far questo non possiamo parlare d’amore a chi ci odia, temere la sua reazione, predicare a un mondo idealmente unito da ciò che realmente lo divide.
L'editoriale dell'elefantino