Guardare in faccia l'integralismo islamista. Ecco la foto che nessuno vuole guardare
Nessun dubbio: siamo sicuri che i giornali questa foto la pubblicheranno. Ma nel caso in cui, osservando questo fotogramma, doveste chiedervi chi è questa bambina piena di sangue che piange in mezzo alle macerie su un corpo privo di vita nel cuore dell’aeroporto appena martoriato di Bruxelles ve lo diciamo noi – e vi spieghiamo anche la ragione per cui ci auguriamo, con poca fiducia, che gli stessi giornali che mesi fa hanno esposto in prima pagina il corpo senza vita del piccolo Aylan, con la sua t-shirt rossa e i suoi pantaloncini blu scuro immersi nella schiuma delle onde di Bodrum, oggi diano a questo fotogramma lo stesso spazio donato sei mesi fa a quel bimbo di tre anni morto scappando dalla guerra e arrivato tragicamente inerme sulla spiaggia di Bodrum. Anche se con poca fiducia, ci auguriamo che la foto sia diffusa sulla stampa italiana perché la politica delle emozioni è bene che sia utilizzata non solo per rafforzare un’idea comoda, rassicurante e politicamente corretta (stupidi, non lo vedete che bisogna aprire le frontiere?) ma anche per suscitare una reazione che sia qualcosa di diverso da una semplice pietà o compassione e che ci permetta insomma di vedere senza filtri dove può arrivare la furia jihadista.
Chi non vuole vedere questo fotogramma reale, vero, amatoriale, impressionante, che riprende una bambina insanguinata colpita come altre decine di persone da un attacco di una cellula che uccide persone in nome di dio, non lo fa per pudore. Lo fa, letteralmente, perché non vuole vedere, non vuole colpevolizzare troppo, non vuole uscire dallo status confortante di un occidente che piange senza reagire, che condanna senza combattere e che accende candele senza capire che volto ha, che cosa vuole e cosa è in grado di fare il fondamentalismo di matrice islamista. Fino a che noi tutti non avremo il coraggio di guardare negli occhi quello di cui sono capaci persone che, guidate da un’ideologia fondamentalista, hanno in spregio la vita a tal punto da non farsi problemi a riempire di sangue il corpo di un bambino non capiremo che guerra stiamo combattendo e cadremo sempre nel solito tranello: tranquilli, sono dei mostri, ma non ci cambieranno, no non ci scuoteranno, no non ci trasformeranno, no, e non daremo ai terroristi la gioia di rivoluzionare le nostre vite.
Quella foto non la si vuole guardare (e forse non la si vuole pubblicare) per questo. Non c’entra la sciocchezza che “non vogliamo darla vinta ai terroristi”. C’entra che la politica delle emozioni viene praticata solo quando le reazioni suscitate sono drammatiche ma anche rassicuranti. Se è vero però che contro il terrore e contro il fanatismo islamista serve la piena consapevolezza dell’opinione pubblica, e se è vero che le guerre, prima di combatterle, vanno anche spiegate al popolo, non c’è modo migliore di trasformare questo fotogramma nel simbolo di una nuova consapevolezza: si può piangere, ci si può commuovere, ma non si può pensare che il modo migliore per combattere il fondamentalismo sia mettere un velo e pensare al giorno dopo. Serve consapevolezza. Serve guardare la realtà in faccia. Serve chiamare le cose con il loro nome. Prendete questa foto, ritagliatela e capirete perché aveva ragione Churchill quando diceva che in guerra non devi riuscire simpatico: alla fine devi soltanto avere ragione.
L'editoriale dell'elefantino