No, non siamo tutti belgi
La solidarietà per gli attacchi di Bruxelles è arrivata incondizionata, l’Alto commissario per la Politica estera europea, Federica Mogherini, si è commossa in diretta commentando la strage nella capitale dell’Europa, travolta dalla “tristezza di chi contempla un sogno svanire – ha spiegato – Il sogno di un’Europa pacifica, tollerante, magari un po’ noiosa ma protettiva e solidale”. L’identificazione dei corpi continua struggente e implacabile, le immagini delle vittime si accavallano a quelle dei carnefici, la “super cellula” di casa nostra che maneggia un esplosivo conosciuto come “la madre di Satana” per quanto è distruttivo.
Bruxelles è isolata, la caccia agli attentatori e ai loro collaboratori è aperta, sarà lunga e sarà dolorosa, perché a ogni passo, a ogni scoperta, a ogni collegamento, ricorrono le solite domande: perché noi? si poteva evitare? la paura è la nuova normalità?
Il cordoglio del giorno dopo è una costante inevitabile, ma strada facendo, di attentato in attentato (e la conta sta diventando insostenibile: è davvero questo il risultato di una politica estera occidentale cauta e calcolata?), ogni dimostrazione corale di solidarietà s’accorcia, e perde un po’ di determinazione. Quando ci furono gli attentati a Parigi, soltanto quattro mesi fa, la Francia reagì immediatamente, furiosa, andando a colpire con i suoi aerei la roccaforte jihadista dello Stato islamico, Raqqa, cercando di tessere un’alleanza militare più efficace di quella allora in campo. Non accadde poi molto di più – la grande coalizione tra America e Russia contro lo Stato islamico non è mai nata e tuttora non esiste, Raqqa continua a essere inespugnata – ma alla solidarietà, Je suis Paris e variazioni, si era unita la consapevolezza che qualcosa di più andasse fatto, per fermare il progetto globale del califfato.
Se si leggono i commenti dei principali giornali internazionali all’indomani di Bruxelles, quella consapevolezza non è più esplicitata: dobbiamo dare il nostro sostegno al Belgio, che è uno stato mezzo fallito in termini di controllo e integrazione, dobbiamo curare le ferite al cuore dell’Europa, che è il nostro cuore, pure se è così maledettamente ammalato, ma di andare a colpire lo Stato islamico là dove cresce e si nutre non lo ha scritto più quasi nessuno. Di stare uniti, poi, non se ne parla affatto, la velocità con cui sono iniziate le distinzioni è sorprendente (o forse anche questa è la nuova normalità?): no, non siamo tutti belgi.
La necessità di intervenire dove la crisi è iniziata pare oggi meno urgente. Barack Obama, nell’ormai nota intervista a Jeffrey Goldberg dell’Atlantic (è la storia di copertina dell’ultimo numero del magazine americano), ha detto: “Credo mi si possa definire un realista per il fatto che sono convinto che non sia possibile ogni momento eliminare tutta la miseria del mondo: bisogna scegliere dove è possibile avere un impatto reale”. Obama ha anche aggiunto di considerarsi un internazionalista, nella misura in cui si è dedicato a rafforzare le organizzazioni multilaterali e le norme internazionali. Nella griglia che il presidente americano ha illustrato a Goldberg, lui occupa il riquadro del realismo e quello dell’internazionalismo. Restano altri due riquadri: l’interventismo liberal e l’isolazionismo. Obama non commenta il primo ed esclude invece la praticabilità del secondo: “Il mondo è in continuo restringimento, il ritiro è insostenibile”.
Il presidente americano dice che l’isolazionismo è impraticabile, ma le sue azioni in medio oriente rivelano tutt’altro. Bill Keller, ex direttore del New York Times ed ex falco liberal ai tempi dell’invasione irachena del 2003, scriveva già nel settembre del 2013, quando Obama aveva appena annullato la missione in Siria contro il regime di Bashar el Assad che aveva usato le armi chimiche sul suo stesso popolo: “L’idealismo è in affanno (…) Le voci che si oppongono a qualsiasi coinvolgimento spaziano dal pacifismo di sinistra al populismo di destra. Il presidente, temendo che un conflitto all’estero possa sminuire la sua agenda domestica, vacilla. (…) L’isolazionismo non è soltanto avversione per la guerra, che sarebbe in generale un istinto sano. E’ una più ampia riluttanza al coinvolgimento, alla responsabilità, all’impegno. L’isolazionismo tende a essere pessimista (non faremo la cosa giusta, peggioreremo la situazione), amorale (non è un problema nostro, a meno che non ci minacci direttamente) e concentrato su se stesso (gli aiuti all’estero sono uno spreco, meglio investire soldi in casa propria)”. Keller lo definiva, allora, il “nuovo isolazionismo” degli Stati Uniti.
Più di recente, i paper sul “ritiro americano” si sono moltiplicati, non soltanto negli ambienti neoconservatori, che denunciano da tempo la rinuncia alla responsabilità internazionale da parte della Casa Bianca. Leggendo le analisi sui giornali di commentatori liberal, alcuni anche sui media italiani ma non troppi, che riguardano la strategia americana in medio oriente, si scopre che la parola più citata è “vuoto”. Un vuoto da riempire, lasciato dagli Stati Uniti, e diventato terreno fertile per altri interlocutori, che hanno molte differenze tra di loro, nelle idee e nella violenza utilizzata, ma che condividono un generale antiamericanismo e antioccidentalismo.
L’isolazionismo però non riguarda soltanto le questioni militari: il consenso a qualsivoglia invasione in medio oriente è inesistente, si sa, non soltanto negli Stati Uniti. Ma anche il soft power, sventolato nel deal con l’Iran e ancor più negli ultimi giorni durante la visita di Obama a Cuba, è in ritirata in medio oriente. Thomas Friedman, columnist del New York Times che in questi anni ha raccontato il significato di molte decisioni prese dalla Casa Bianca di Barack Obama, avendo ampio accesso al team presidenziale, il giorno dopo gli attacchi di Bruxelles ha scritto il suo commento da Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno, e si è chiesto: “Does Obama have this right?”, Obama sta interpretando nel modo corretto quel che accade in medio oriente? Friedman risponde con un’altra domanda, che si pone stando seduto in mezzo a iracheni che discutono di proventi del petrolio e di ponti da costruire: “Mi chiedo se Obama non sia tanto ossessionato dalla difesa del suo approccio ‘hand’s-off’, non interventista, nei confronti della Siria da sottovalutare sia i pericoli di questa passività sia l’opportunità per gli Stati Uniti di far pendere questa regione nella nostra direzione, senza dover invadere alcun paese”. Friedman dice che nella regione ci sono due democrazie che stanno cercando di nascere “da sole” (il corsivo è suo): la Tunisia e il Kurdistan iracheno. Entrambe sono molto fragili, perché sono nel mirino della destabilizzazione jihadista, violentemente avversa a ogni genere di democratizzazione. Avrebbero bisogno di aiuto, ma “sfortunatamente Obama sembra tanto ossessionato dal non essere come George W. Bush in medio oriente che ha smesso di pensare a come essere Barack Obama lì, come lasciare un’eredità unica e un appiglio sicuro per la democrazia… senza che ci sia alcuna invasione”.
L’isolazionismo sarà pure impraticabile ma di fatto c’è. Nella versione obamiana non prevede certo l’uscita dalla Nato che immagina un Donald Trump o i sostenitori dell’American First ora così popolari e vocianti negli Stati Uniti in campagna elettorale, ma ha una presa forte sull’opinione pubblica e ancor più sulla percezione di chi in America non vive. L’Europa, che sul presidente Obama aveva puntato tutto, con occhi sognanti e aspettative vertiginose, si sente oggi alternativamente abbandonata o eccessivamente responsabilizzata. Nel calcolo obamiano – affrontare una crisi alla volta, soltanto se necessario – l’Europa deve fare da sé, organizzare una sua politica estera, considerare quali sono le minacce maggiori, e quelle che bisogna assolutamente combattere. Laddove l’America non arriva, dice Obama, arriverà l’Europa. Questo potrebbe sembrare un invito all’unità e all’impegno, ma se da un lato la politica obamiana non è stata vissuta come un incoraggiamento (il presidente ci ha messo del suo, definendo gli alleati europei dei “free riders”), dall’altro anche l’Europa è scossa da un istinto isolazionista molto forte. Se non si muove l’America, figurarsi se dobbiamo muoverci noi. Di più: se da sola l’America si sente più al sicuro, perché non dovremmo sceglierla noi, la solitudine? In un consesso come quello europeo, la solitudine del non siamo tutti belgi diventa frattura e debolezza.
Marc Champion, giornalista di Bloomberg che scrive di politica internazionale (viene dal Wall Street Journal e prima ancora dal Financial Times), ha messo in fila le reazioni europee per spiegare che, cordoglio a parte, gli attacchi a Bruxelles sono stati utilizzati da molti leader europei come la dimostrazione dell’inefficacia dell’unità. Vincono in velocità, i sostenitori della Brexit. Il portavoce dell’Ukip, partito indipendentista britannico, ha attaccato Schengen: “Sono sconvolto dalle vite perdute e dai feriti – ha detto Mike Hookem – I nostri pensieri vanno alle loro famiglie. Questo orrendo atto di terrorismo mostra che la libera circolazione di Schengen e i pochi controlli alle frontiere sono una minaccia per la nostra sicurezza”. Una giornalista del Telegraph, Allison Pearson, ha tuittato rapida (facendo imbestialire tutti, ché ancora non si era capito se l’attacco a Bruxelles era finito o no): “Bruxelles, capitale de facto dell’Ue, è anche la capitale jihadista dell’Europa. E i sostenitori del ‘remain’ osano ancora dire che siamo più al sicuro in Europa!”. Katie Hopkins, columnist del Daily Mail, ha fatto una serie di tweet uno più controverso dell’altro, il cui tenore è questo (l’ultimo della serie): “Chiunque di voi abbia detto che i rifugiati sono i benvenuti, chiunque abbia detto ‘facciamoli entrare’, è responsabile degli attentati di Bruxelles. E ancora non se ne accorge”. Naturalmente chi si oppone alla Brexit, compreso il premier inglese David Cameron, ha reagito con il furore del caso, definendo oltraggiosa la strumentalizzazione degli attacchi terroristici. Più tecnicamente, molti si sono limitati a ricordare che il Regno Unito non fa parte di Schengen, che non può essere obbligato a entrarci e che ha il controllo pieno delle proprie frontiere, ma il segnale era già arrivato piuttosto chiaro: no, non siamo tutti belgi.
Anche la reazione russa è stata piuttosto significativa. Alexei Pushkov, il presidente della commissione Esteri della Duma, il Parlamento russo, ha tuittato: “Mentre il segretario della Nato Stoltenberg è impegnato a combattere una ‘minaccia russa’ immaginaria e a mandare truppe in Lettonia, sotto al suo naso a Bruxelles la gente esplode”. Pushkov ha poi elaborato meglio il suo pensiero, spiegando che le priorità della Nato sono del tutto sbagliate, e che la collaborazione con la Russia, che di lotta al terrorismo se ne intende, dovrebbe essere messa al primo posto. Ma come hanno dichiarato altri funzionari russi, un po’ più delicati nella parte dedicata al cordoglio, l’asse occidente-russo non si è mai concretizzato, nemmeno dopo gli attacchi di Parigi quando le condizioni per un’alleanza sembravano migliori. A maggior ragione oggi, non ci sono le intenzioni, e gli obiettivi sono molto differenti. Ancora una volta: no, non siamo tutti belgi.
Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, interlocutore necessario e ostile per l’Europa, è entrato nella discussione con un sonoro “ve l’avevo detto”. Avevamo avvertito il Belgio, un anno fa, che uno degli attentatori di Bruxelles era stato preso in custodia al confine tra Turchia e Siria, “ma le autorità belghe non trovarono alcun collegamento tra lui e l’attività terroristica”, e così il ragazzo – uno dei due fratelli che si sono fatti esplodere martedì, Brahim el Bakraoui – era tornato in libertà. Non era un foreign fighter, secondo il Belgio, lo era secondo le autorità turche, ma ha vinto il lassismo del cuore dell’Europa. In realtà la Turchia avrebbe ben poche lezioni da impartire agli europei, soprattutto in questo momento di grande instabilità al suo interno e di promesse fragili al suo esterno (è chiaro che il piano sui rifugiati studiato con Ankara, che passa dalle espulsioni greche, non è praticabile; così come anche le quote stabilite di redistribuzione sono saltate, la Polonia ha già detto che, data l’emergenza, non accoglierà il numero di rifugiati previsto dagli accordi), ma la solidarietà è un bene effimero, e forse nessuno quanto Erdogan si sente di poter dire no, non siamo tutti belgi.
L’elenco potrebbe continuare, in tutti i paesi dell’Unione europea i partiti populisti non hanno perso tempo a denunciare l’impossibilità di un’alleanza comune. “Ne abbiamo abbastanza”, ha detto l’Adf tedesca, che già ha messo in difficoltà la cancelliera, Angela Merkel, a livello elettorale; “state a casa vostra”, ripete in tutti i talk show Matteo Salvini della Lega nord; “il massacro è il risultato delle frontiere aperte”, ha dichiarato Marine Le Pen, leader del Front national francese, chiedendo la chiusura della frontiera tra Francia e Belgio. Il nuovo isolazionismo europeo – che è venato da un forte antiamericanismo – prende le mille forme dei vari populismi del continente, viene piegato a seconda delle esigenze ma mai come in questa settimana di lutto ha fatto sentire il suo slogan: no, non siamo tutti belgi. Le conseguenze di questa frammentazione non riguardano soltanto battibecchi politicizzati sull’allocamento dei rifugiati o sulle responsabilità di intelligence: ci saranno effetti molto più profondi. Come ha scritto Matthew Karnitschnig di Politico Europe, “la domanda ora è se i 28 membri dell’Unione rispondono alla minaccia, dopo le iniziali espressioni di choc e le promesse di solidarietà, come alleati con un senso comune o ritirandosi lungo le proprie linee nazionali. La risposta determinerà il futuro dell’Unione, o persino se ce ne sarà uno”.
L'editoriale dell'elefantino