Quando il Belgio si vantava di aver integrato l'islam meglio della Francia
Roma. Lo scorso dicembre, appena tre settimane dopo le stragi che avevano insanguinato Parigi, il governo belga presentava il rapporto “Modern islam in Belgium”, un elenco di buoni propositi e obiettivi per stabilire una proficua e pacifica convivenza tra musulmani e non musulmani a Bruxelles e nel resto del paese. Ancora a febbraio, il ministro della Giustizia Koen Geens si vantava del progetto, spiegando che “questa strategia corrisponde alla nostra filosofia per un islam più integrato. Per combattere la radicalizzazione – aggiungeva – è importante che i giovani non entrino nelle moschee dove si proclama una fede radicalizzata”. Semplice a dirsi, in un paese dove allora Salah Abdeslam era ancora in fuga e Molenbeek (ma anche Schaerbeek) risultava essere un fortino inespugnabile, una città nella città che vive di regole proprie.
Eppure, la soluzione era a portata di mano: bastava – si legge nel rapporto – formare gli imam, insegnando loro un buon francese (magari anche il fiammingo, da usare in qualche moschea di Brugge o Anversa), trasmettere un programma televisivo e radiofonico dedicato all’islam e creare una cattedra universitaria da cui presentare una lettura contemporanea del credo musulmano, priva degli antichi retaggi bellicosi. Infine, l’obbligo di fissare delle “quote rosa” negli organismi responsabili dei luoghi di culto. Non è specificato se ciò valesse anche per la grande moschea del Parco del Cinquantenario, emanazione diretta dell’Arabia Saudita wahabita, che non consente alle donne neppure di guidare un’automobile, pena una massiccia dose di frustate in piazza. Il dossier, che conta 37 pagine, è stato scritto da Jean-Claude Marcourt, ministro dell’Istruzione del governo vallone, e ruota attorno alla necessità di preparare gli imam con corsi intensivi, costringendoli a predicare in francese e non in arabo. Una ricetta finalizzata a rafforzare il “secolarismo organizzato” belga, fiero di rappresentare l’opposto del modello francese basato su una laicità tout court rea di soffocare la libertà di culto, frustando i cittadini di fede islamica che proprio per tale ragione poi sposerebbero la causa fondamentalista – nichilista, direbbe l’orientalista di fama Olivier Roy – nelle banlieue metropolitane, dandosi all’assalto di sale da concerto e café cittadini affollati.
A Bruxelles, faceva intendere ancora il ministro Geens, tutte le fedi sono riconosciute e trattate allo stesso modo, e ciò comporta che lo stato finanzi la costruzione e il mantenimento degli edifici di culto, pagando anche lo stipendio a chi per quei culti lavora. Imam compresi. Non a caso, una parte del piano antiradicalizzazione era dedicato allo stanziamento di fondi per i religiosi musulmani: 3,3 milioni di euro per il compenso di 80 nuovi imam, il doppio rispetto alla situazione odierna, dove solo 160 imam sui 300 attivi sul territorio nazionale sono riconosciuti dallo stato. Legalizzarli tutti è “la miglior strada per favorire l’integrazione”, chiariva il governo. Il progetto preparato da Marcourt è coordinato con l’annuncio – risalente allo scorso novembre – del ministro dell’Interno, Liesbeth Homans, dell’apertura di cinquanta nuove moschee perché così “si potranno monitorare le attività dei cittadini musulmani oltre a implementare il dialogo”. L’islamologo Michael Privot, direttore del network europeo contro il razzismo, non vedeva altre soluzioni, nell’immediato, alla messa in pratica del progetto belga, sostenendo che “se un imam non è istruito qui e non parla la lingua del luogo, ci metterà molto tempo a comprendere le specificità del Belgio, possedendo gli standard culturali diversi rispetto a chi è nato in Europa”.