Senza un Dio che ci salvi. Cosa succede a un occidente senza guida
Qualcuno che ci guidi, questo è il problema. Bruxelles è il simbolo di un mondo istituzionale non guidato e che non guida i popoli. Qualcuno non è un tizio, è una classe dirigente. Una classe dirigente non è un insieme di élite che si dividono, danno la caccia al vantaggio di posizione sul discrimine destra-sinistra, si vergognano del passato storico dell’occidente; non è una teoria di soggetti che confondono la laicità e il pluralismo dei costumi e dei culti con l’autorizzazione alla pratica di una società chiusa, comunitaristica, multiculturale nel senso di Molenbeek e del Londonistan. Blair ha detto parole interessanti e di peso nell’intervista di ieri a Paolo Valentino del Corriere. Ma tutti sentiamo che la funzione del discorso è in esaurimento, che l’attacco al caffè, alla metropolitana, all’aeroporto, allo stadio, al concerto e i sassi tirati nei quartieri perduti alle polizie che danno la caccia agli assassini, tutto questo asciuga pericolosamente l’efficacia della parola democratica, della divisione del lavoro tra cittadini ed esperti, dell’informazione e della comunicazione.
Tutti sentiamo che quindici anni dopo l’11 settembre del 2001 e al cospetto di incandescenti guerre civili, di scontri infraislamici, di guerriglie jihadiste in occidente, di esodi biblici incontrollati, loro sono il moto di spinta di un fenomeno che alligna potenzialmente ovunque in nome di un Dio che è massimo, noi siamo quelli divisi abbarbicati al mito del mondo senza frontiere come i profughi alle frontiere, siamo quelli senza una vera guida e senza un Dio che ci salvi, quelli che si rimpallano le responsabilità tra loro, quelli che non sanno che cosa fare della loro potenza economica militare tecnologica, delle loro regole tolleranti, non sanno come spegnere i focolai, come bonificare e riorganizzare il potere nel mondo islamico in rivolta e in risveglio, e combattono una crisi deflazionaria mentre subiscono una guerra mondiale che destabilizza e sottomette.
Non è casuale che il più grande attentato, il bombardamento del World Trade Center a New York, sia caduto dal cielo come un’offesa devastante alla libertà dei mercati e delle economie cosiddette aperte. Non è casuale che la risorgenza di guerra si sia fissata su un territorio che è insieme un mito facitore di storia e di credenza, quello del Califfato che taglia teste e riarma i guerrieri delle abluzioni rituali e della schiavitù delle donne e della persecuzione degli eretici e degli apostati, che è a suo modo un abbattimento delle frontiere, una universalizzazione della sharia, mercato mondiale del dio del terrore; mentre prende colpi con abdicazione e sentimentalismo misericordioso e taumaturgico per le masse la potenza universalizzante della cristianità e della cattolicità. Il dio degli eserciti e quello dei mercati non parlano la stessa lingua, sono un sì sì, no no.
Il punto è che non abbiamo bisogno di analisi, di lacrime, di fiori, di santuari della memoria. Abbiamo bisogno di ordini, che poi vuol dire indicazioni civili, non militarizzazione delle società. Vuol dire uno scopo chiaro, un criterio che coinvolga tutti nella rimessa a punto di un meccanismo storico, quello dell’ordine mondiale, che si è inceppato e che rischia di crepare nelle sue giunture fondamentali, in un tripudio di demagogia arrembante e senza guida politica. C’è qualcuno, una classe dirigente che abbia voce in capitolo nel mondo e nel nostro mondo, che sia in grado di farci sentire non la ripugnanza per la cultura e la fede che hanno concimato la nostra civilizzazione, l’ansia di non concedere mai più al nemico il nostro odio, ma l’orgoglio sopranazionale, imperiale, di un’umanità che non vuole lasciarsi ferire dalla paura e sottomettere dalla brutalità selvaggia di un revival superstizioso? Quando il discorso pubblico si estenua e perde significato, prima che nasca una reazione iperbolica e inadeguata, fatta di rifiuto e di rancore impotenti, è necessario che qualcuno, inteso come una classe dirigente responsabile, sia in grado di cambiare l’ordine del discorso. Ordini, non analisi.