Così la sinistra mette all'Indice l'islamico moderato
Roma. L’intervista alla Zeit è sconsolante: “Mi sento molto più libero in Algeria che in Francia”. Chi parla così? Uno scrittore algerino che, dopo l’11 settembre, si era domandato perché gli arabi fossero bravi a fracassare aerei più che a costruirli. Lo scrisse sul suo giornale, il Quotidien d’Oran, e piovvero accuse di “razzismo”. Uno scrittore che avrebbe raccolto premi, dal Mauriac al Goncourt. Il 31 gennaio scorso, quello scrittore, Kamel Daoud, ha pubblicato un articolo sul Monde sui fatti di Colonia. “L’occidente dimentica che il rifugiato proviene da una trappola culturale che si riassume soprattutto nel suo rapporto con Dio e la donna. Non basta accoglierlo dandogli dei documenti e un dormitorio. Bisogna offrire asilo al corpo ma anche convincere l’anima che deve cambiare”. Pochi giorni dopo il Monde ospita l’appello di sociologi, storici e antropologi della gauche che accusano Daoud di “riciclare i più triti cliché orientalisti” e di “islamofobia”. Da allora, è un anatema senza fine contro la “bête noire des intégristes”, come è stato definito Daoud.
Gli attacchi al romanziere e giornalista algerino arrivano anche dalla London Review of Books, la bibbia delle élite liberal anglosassoni, che definisce Daoud “irresponsabile”. Rafik Chekkat chiama Daoud “un informatore nativo”, sostiene che “la sua decisione di lasciare il giornalismo sarebbe l’unica buona notizia in mezzo a tutto questo rumore”. Si chiede Mediapart: “Daoud è islamofobo?”, mentre il suo patron, Edwy Plenel, chiede a Daoud di “scusarsi”. Su Libération, Olivier Roy, islamologo blasonato, in un articolo dal titolo “Colonia e il tartufo femminista”, senza mai nominare Daoud, lo accusa di stigmatizzare i musulmani: “Il maschilismo e le molestie sessuali esistono in tutto il mondo, perché isolare questo fenomeno tra i musulmani, invece di combatterne tutte le forme? Solo perché sono musulmani”. E, sul Monde, Jeanne Favret-Saada, orientalista all’Ecole pratique des hautes études, accusa Daoud di aver “parlato come l’estrema destra europea”. Jocelyne Dakhlia, docente all’Ecole des hautes études en sciences sociales, scrive che Daoud ha riciclato “una visione culturalista della violenza sessuale”.
Sul Figaro, Laurent Bouvet parla di “processo stalinista” contro Daoud, che ha ricevuto una telefonata di sostegno dal premier del suo paese, Abdelmalek Sellal, ed è stato difeso apertamente soltanto da poche mosche bianche arabe. Come Karim Akouche sulla rivista Marianne: “Il nostro tempo è assurdo, ridicolo, violento. Sparano senza preavviso a chi osa scuotere luoghi comuni e certezze”.
Continua Karim Akouche, contro i critici del pensatore algerino: “Usano l’arma della reductio ad hitlerum e delle scomuniche. In questi tempi di confusione morbosa, in cui si diffondono il fanatismo e la violenza come metastasi della nostra società, la voce di Daoud è più essenziale che mai per la guarigione della ‘malattia dell’islam’”. La franco-tunisina Fawzia Zouari su Libération scrive che la sinistra riduce al silenzio “una delle voci di cui il mondo islamico ha più bisogno”. Mentre Sérénade Chafik, militante per i diritti delle donne, l’autrice di “Répudiation”, parla di “inquisitori” contro Daoud, ricordando che “mentre gli islamisti in tutto il mondo hanno gridato ‘morte ai blasfemi’, alcuni giornalisti hanno accusato i loro colleghi di Charlie Hebdo di xenofobia. ‘Islamofobia’ è diventato il verdetto preferito dei nuovi inquisitori e dei loro amici occidentali islamo-sinistroidi”. L’imprenditore marocchino Ahmed Charai difende Daoud dicendo che “gli intellettuali, a rischio della loro vita, si battono per i valori universali, ma sono trattati come ‘islamofobici’. Questa è una grande sconfitta del pensiero”. Infine Boualem Sansal, l’autore di “2084” (Gallimard), che definisce gli attacchi a Daoud come “terrorismo intellettuale” da parte di una “polizia del pensiero in agguato nelle alte strutture della cultura e dell’informazione”. Secondo Sansal, “salvare Daoud significa salvare la libertà, la giustizia e la verità”.
Il triste paradosso dell’affaire Daoud è stato colto ora da due ultra liberal americani, Paul Berman e Michael Walzer, che in un appello sulla rivista Tablet (prossimamente tradotto in Italia dal mensile IL) attaccano la gauche che demonizza Daoud. Berman e Walzer se la prendono con “gli intellettuali occidentali che accusano il liberale del mondo musulmano di essere un razzista contro i musulmani, o un islamofobo, uno strumento dell’imperialismo”. Era già successo a Rushdie dopo l’uscita dei “Versetti Satanici”, quando tanti letterati di sinistra lo esecrarono a fatwa fresca: Roald Dahl, celebrato autore di libri per ragazzi, disse che “Rushdie è un pericoloso opportunista”; per George Steiner, uno dei più rispettati critici culturali, “Rushdie ha fatto in modo di creare un sacco di problemi”; Kingsley Amis commentò che “se vai in cerca di guai, non puoi lamentarti quando li trovi”; mentre lo storico Hugh Trevor-Roper disse di godere della sofferenza di Rushdie: “Mi chiedo come Rushdie stia in questi giorni. Non troppo comodamente, spero…”.
Berman e Walzer paragonano il trattamento dei dissidenti islamici, come Daoud, a quello che certa sinistra riservò a quelli del comunismo sovietico. “Dal 1920 al 1980, un dissidente coraggioso dopo l’altro è riuscito a comunicare un messaggio al pubblico occidentale sulla natura dell’oppressione comunista. E, di volta in volta, una fetta significativa di intellettuali occidentali ha gridato: ‘Oh, non devi dire queste cose! Si incoraggiano i reazionari’. Oppure: ‘Sei un reazionario e uno strumento dell’imperialismo’. Denunciando i dissidenti, gli intellettuali occidentali riuscirono a offuscare la realtà sovietica. E prestarono il proprio prestigio al regime sovietico, il che significava che, invece di essere i nemici della oppressione, hanno finito per esserne alleati”. “Daoud è stato difeso da coloro che condividono l’idea che il liberalismo comporti un dibattito aperto e che sono a favore di dibattiti complessi”, dice al Foglio Paul Berman, intellettuale della nuova sinistra americana, autore di “Terror and Liberalism”. “E’ stato invece attaccato da un gruppo di intellettuali i quali credono che la vita intellettuale sia una battaglia contro la destra politica in Europa e in America e che sono contrari alla complessità dei dibattiti. A questo gruppo non piacciono i liberali arabi e musulmani. L’intero dibattito rispecchia quello all’epoca della Guerra fredda con i dissidenti nel blocco sovietico. Daoud è accusato di razzismo contro i musulmani e di servire l’imperialismo. Inoltre, è accusato di ‘stupidità’, una accusa tipica”.
I precedenti Van Gogh e Hirsi Ali
Era già successo. Nel libro “Assassinio ad Amsterdam” e in una serie di articoli per la New York Review of Books e il New York Times, liberal di tempra relativista come Ian Buruma e Timothy Garton Ash dileggiarono Ayaan Hirsi Ali. Il suo appello per l’emancipazione delle donne la contrassegnò come una “fondamentalista dell’Illuminismo”. L’Index on censorship, la rivista fondata da Stephen Spender per difendere la libertà di espressione durante la Guerra fredda, pochi giorni dopo l’uccisione di Theo van Gogh pubblicò un saggio di Rohan Jayasekera, direttore dell’Index, che descriveva Hirsi Ali come una ragazza sciocca manipolata da Van Gogh in un “rapporto di sfruttamento”. E quando l’Olanda tolse a Hirsi Ali la protezione di cui aveva assoluto bisogno, fallì anche l’appello ad assegnargliene una a spese dell’Unione europea promosso dal socialista francese Benoît Hamon, in mancanza di un numero sufficiente di voti: solo 144 su 782.
A Berman chiediamo se l’Europa possa permettersi di abbandonare i pochissimi musulmani davvero “moderati”, come Daoud: “No, quel lusso non ce l’ha. Una battaglia di idee è in corso nel mondo islamico, liberali verso islamisti, con un significato importantissimo per tutto il resto del mondo. Questa lotta non si chiuderà nei prossimi tre giorni, e tuttavia è la battaglia più importante”. Come si spiega l’apologetica pro islamica di tanta sinistra? “Solidarizzano con chiunque si opponga all’occidente e credono a una inferiorità dei popoli del Terzo mondo che non sanno produrre altro che islamismo e tirannia. Uno scrittore intelligente e di talento, con idee liberali e che scrive da una prospettiva arabo-islamica, non può che essere inautentico”. E’ la morale dell’affaire Daoud: un grande scrittore arabo grida verità importanti e gli intellettuali europei, anziché ringraziarlo mentre gli islamisti lo minacciano di morte, lo invitano al silenzio, a rinchiudersi nel romanzo, a consegnarsi ai suoi carnefici. Come successe al maestro di Daoud, Tahar Djaout, ucciso nel 1993 dagli islamisti di Algeri. Il manoscritto del suo ultimo romanzo venne ritrovato tra le sue carte dopo l’assassinio. Come in un titolo di André Glucksmann: “Silence, on tue”. Zitti tutti, si uccide.