Il disimpegno dell'America di Trump è un volto della guerra all'élite del Gop
New York. “Non sono isolazionista, ma America First. Mi piace questa espressione”, ha detto Donald Trump in un lungo colloquio con il New York Times sulla politica estera. America First era il comitato nazionale che allo scoppio della Seconda guerra mondiale faceva pressione su Roosevelt per mantenere una posizione di neutralità nei confronti dell’Europa, evitando un coinvolgimento sulla base della necessità di occuparsi innanzitutto delle faccende domestiche. L’attacco di Pearl Harbor nel 1941 ha cambiato i calcoli della Casa Bianca e dell’opinione pubblica, fino a quel momento favorevole a un movimento che raccoglieva consensi trasversali. Fra i sostenitori di America First c’erano Gerald Ford e un giovane John Fitzgerald Kennedy. Trump sta delineando con crescente precisione, e non senza contraddizioni e incoerenze, la sua visione sul ruolo dell’America nel mondo, ora che la sua posizione di solido frontrunner repubblicano non gli permette più di cavarsela con qualche slogan sul muro al confine e sulla conquista dei pozzi di petrolio in medio oriente. Trump ha innanzitutto dato voce alla sua sfiducia nella Nato. Poi ha annunciato una prima serie di consiglieri di politica estera. Nell’intervista al New York Times ha presentato tre nuovi nomi, uomini di carriera militare che il pragmatico Trump predilige rispetto alla comunità dei diplomatici e dei politologi, più orientati ideologicamente. Sono gli ex generali Gary Harrell, Bert Mizusawa e l’ex ammiraglio Charles Kubic.
Più in generale, Trump ha riaffermato la volontà di restringere “l’ombrello protettivo” degli Stati Uniti nel mondo, principio che si declina in maniera differente nei vari scenari. Nel quadrante asiatico significa permettere, perfino incoraggiare, lo sviluppo di arsenali nucleari da parte di Corea del sud e Giappone per difendersi dagli avversari, “cosa che farebbero comunque se l’America continua sulla strada della debolezza”. In medio oriente il principio trumpiano si traduce con l’imposizione di rimborsi dei costi da parte degli alleati che sfruttano la protezione americana, a cominciare dall’Arabia Saudita. Al di là della praticabilità dei (pochi) dettagli offerti, l’idea di Trump è chiudere un’èra geopolitica riassunta in un motto: “Nel dubbio, rivolgiti agli Stati Uniti. Ti difenderemo. In alcuni casi anche gratis”. Nel mondo di Trump, fatto di scambi, affari vantaggiosi e “make America great again” non c’è posto per chi si attacca alla locomotiva americana senza pagare il biglietto. La domanda è se questa visione America First cada all’intero di un perimetro ideologico repubblicano, e dunque possa raccogliere consensi non soltanto nel bacino elettorale degli arrabbiati ma anche in una più profonda falda acquifera isolazionista.
“Nessuno fino a questo momento è stato in grado di decifrare Trump, ma trovo che la sua incoerente forma politica abbia cittadinanza nel mondo conservatore: il problema è che non è il mondo conservatore a cui siamo abituati, quello che abbiamo sezionato e studiato, quello dei Bush e di Reagan, della National Review e di Goldwater”, spiega al Foglio Rick Perlstein, storico dei conservatori e autore di “Nixonland” e “The Invisible Bridge: The Fall of Nixon and the Rise of Reagan”. Nella cartina politica muta del trumpismo, senza confini né capitali, l’elemento isolazionista è decisivo, spiega Perlstein, “in quanto è parte di un’idea nazionalista e venata di nativismo, elementi che incontriamo nella storia conservatrice. In Trump tutto questo è però sconnesso dall’élite repubblicana”. L’analogia di Perlstein è con Barry Goldwater, “l’estremista della libertà” che nel 1964 fece una campagna grandiosa e fallimentare a destra della sensibilità mainstream del partito: “Diciamocelo: Goldwater non ha preso oltre l’80 per cento dei voti del Mississippi perché da quelle parti tutti erano persuasi dalle argomentazioni raffinate della National Review di William Buckley, ha preso quei voti perché era contro i diritti civili. Eppure, quando si sono scatenate sommosse razziali in giro per il paese, lui è andato dal presidente e ha offerto di ritirarsi dalla corsa, se questa avesse indirettamente fomentato le violenze. Trump non ha mostrato di avere questo tipo di preoccupazione, perché tutto il suo appeal consiste nel dimostrarsi sconnesso dall’élite repubblicana e dalla sue istituzioni, che si chiamino National Review, Fox News o Heritage Foundation. Ora la questione specifica è sul ruolo dell’America nel mondo, ma va letta, io credo, attraverso la dicotomia fra popolo ed élite”.