"Restare uniti". Arma retorica spuntata contro il terrore
"Dobbiamo rimanere uniti", ha detto Obama dopo gli ultimi attentati. A chi? Attorno a cosa? Uniti a tutti i "buoni", uniti a quelli con la nostra cultura, o quelli con il nostro passaporto, o cos'altro? Il rischio del vaniloquio.
Sarà perché a Pasqua e alcune parole rimangono più impresse. Fatto sta che la parola che più ho sentito dopo gli attentati di Bruxelles è stata “unità”. “Dobbiamo rimanere uniti”, ha detto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama in visita a Cuba e hanno confermato tutti i nostri leader, a partire dal povero premier belga e dal nostro Renzi. Purtroppo, come si era già visto nel caso degli attacchi di novembre a Parigi, la retorica – persino stanca questa volta – vuole che usiamo certi termini il cui significato si è smarrito. Che cosa vuol dire “rimaniamo uniti”?
Innanzi tutto, bisognerebbe chiarire: uniti a chi? Obama, come sempre, non l’ha detto. Uniti con i cubani? Uniti a tutti i Paesi occidentali? Uniti con i paesi della NATO? In questo caso, di nuovo, come per i concetti di libertà e verità sbandierati dopo gli attacchi parigini, se fossimo onesti intellettualmente dovremmo ricordare anni di insegnamenti che rendono dubbia l’espressione. Ci hanno insegnato che “uniti” si applica a “tutti gli uomini”. È un’eredità cristiana, che però parlava del dilatarsi dell’unità che comincia fra cristiani. Nell’illuminismo universalista è diventata un dovere e si applica indifferentemente come indifferentemente comincia. Così ce l’hanno insegnata. Perfetto, solo che adesso fra “tutti gli uomini” ci sono anche i terroristi e i loro mandanti. L’universalismo illuminista qui inizia a scricchiolare.
“Uniti a tutti quelli buoni, che rispettano le regole”, mi suggeriscono gli amici con cui discuto di tutto questo in auto. Già, e quali sono le regole buone? Chi decide il bene e il male? Non erano relativi alla cultura? Lo scontro di civiltà, tanto temuto (giustamente) dagli intellettuali, nasce in realtà proprio quando il bene e il male sono relativi a una cultura e, allo stesso tempo, incontestabili. Così, quando non andiamo d’accordo e il dialogo fallisce, non ci rimane che eliminare l’altro. Anche il moralismo non è una buona soluzione per rispondere al problema dell’unità.
“Uniti a tutti quelli della nostra cultura”. Bello, ma quale cultura? Il Parlamento italiano è riuscito ad azzuffarsi per mesi sul fatto delle adozioni gay e chissà come si spaccherà ora che arriva la discussione sull’eutanasia. E se si amplia lo sguardo all’intero mondo occidentale, a cominciare dagli States di Clinton e Cruz, le differenze sono ancora più radicali. Quale cultura? Quella cristiana? Quella liberal azionista (liberalismo più egualitarismo)? Quella edonista che dice che noi siamo quelli dell’aperitivo e del sesso liberi? Non penso che sia una base molto solida per fondare l’unità.
“Uniti a tutti quelli che hanno il nostro passaporto”. E qui si apre il terribile gioco, denunciato da tanti, dei nazionalismi, anche dei governi e dei servizi di intelligence. Purtroppo, è proprio su questo tema che non abbiamo deciso cosa vogliamo: vogliamo che ci sia un passaporto europeo? Vogliamo l’Europa forte – cedendo inevitabilmente sovranità – o non la vogliamo più? O se la vogliamo riformare, su quali basi, con quale concezione?
È il pensiero che è in crisi almeno quanto la difesa contro i terroristi. Per cominciare, anche in questo caso, bisognerebbe almeno ammettere che l’astrattezza dell’universalismo di matrice illuminista e razionalista ha fallito così come ha fallito un’idea di dialogo intesa come annullamento delle proprie convinzioni. Che si riprenda da “che cos’è bene e che cos’è male?” – ovviamente non è lo stesso male quello della morte di Crujff, quello dell’autista di Tarragona e quello delle vittime di Bruxelles – oppure che si riprenda da “qual è la nostra cultura?” o da “cosa vuol dire essere europeo o occidentale?” è l’ora di cominciare dai contenuti e dalle concezioni, anche forti. Altrimenti, ad avere idee forti e, soprattutto, precise resteranno quelli che ne hanno poche e gli estremi opposti dell’agone sociale e politico. Se rimangono gli unici, prima o poi, vinceranno.