Il “capolavoro politico” di Aung San Suu Kyi che fa arrabbiare i vittimisti
Si insedia il nuovo governo dominato dalla Signora (ben quattro dicasteri ministeriali) e si respira aria nuova in Birmania. Le critiche dei puristi della dissidenza.
“Ha fatto un capolavoro”, dice al Foglio Alberto, imprenditore che vive in Birmania. Si riferisce ad Aung San Suu Kyi. Il capolavoro si compie in questi giorni: mercoledì 30 marzo ha prestato giuramento Htin Kyaw, nuovo presidente del Myanmar (nome ufficiale della Birmania), il primo liberamente eletto dal 1962. Entrerà in carica giovedì. Venerdì 1° aprile il potere passerà al nuovo governo. In quel governo la Signora sarà davvero, come aveva dichiarato dopo le elezioni del novembre scorso, “al di sopra del presidente”. Non solo perché Htin Kyaw è l’uomo che le ha dedicato vent’anni di vita e mesi di prigione, ma perché lei stessa ricoprirà quattro dicasteri: Esteri, Energia, Educazione, Ufficio del presidente. Il primo ministero, oltre a consentirle di gestire le strategie del paese, le assicura un posto nel National Defence and Security Council, sorta di governo ombra sinora controllato dai militari. Quello dell’energia le permette di controllare i rapporti con la Cina (che ha fortissimi interessi nelle centrali elettriche del paese). La carica di ministro dell’Ufficio del presidente, poi, è una sorta di superministero che nei precedenti governi conferiva il potere di influenzare le decisioni del presidente e ora rappresenta de facto la carica di capo del governo.
“Non ci avrei mai creduto. E di sicuro non ci credevano i militari. L’hanno sottovalutata”. Secondo Alberto, questa è la vera spiegazione del cambiamento. Quando, nel 2010, i militari hanno imboccato la via semidemocratica, erano convinti che, una volta liberata dagli arresti domiciliari, Aung San Suu Kyi avrebbe perso carisma e, soprattutto, non sarebbe stata in grado di gestire il cambiamento. Forse pensavano che la National League for Democracy, il movimento da lei guidato, si sarebbe confuso tra le mille fazioni dell’opposizione al regime, mentre si sarebbe consolidato il potere dell’Union Solidarity and Development Party, il partito guidato dall’ex generale Thein Sein (presidente in carica sino a oggi), cui va riconosciuto il merito di aver avviato numerose riforme politiche, economiche e sociali.
E’ accaduto il contrario: Aung San Suu Kyi è riuscita a trasformare la Nld in un partito monolitico e il suo ascendente sul popolo birmano è divenuto quasi assoluto, dimostrato dall’80 per cento dei consensi nelle elezioni di novembre. Paradossalmente il carisma della Signora si è offuscato oltre i confini del paese: molti occidentali non le perdonano la metamorfosi da martire a politica, da pura eroina a maestra del compromesso. Sembra quasi che molti di coloro che l’avevano trasformata in un’icona pop come Che Guevara non le perdonino di non aver fatto la stessa fine.
Le ultime accuse sono quelle di razzismo, diffuse nei giorni scorsi con un misto di confusione e superficialità. E’ accaduto dopo l’uscita dell’ultimo libro a lei dedicato: “The Lady and the Generals”. A pagina 276 è riportato il commento fatto fuori onda durante un’intervista rilasciata a Mishal Husain della BBC nel 2013: «Nessuno mi aveva detto che sarei stata intervistata da una musulmana». Ma nessuno dei suoi accusatori ha citato le righe seguenti, in cui Peter Popham, autore del libro, spiega tale affermazione. “Il commento, più che riflettere un sentimento anti islamico, deriva soprattutto dalla sensazione non infondata di Suu che esponenti della comunità musulmana internazionale avessero deliberatamente alimentato una campagna a lei contraria”. Campagna determinata da quella che appariva una posizione troppo poco decisa nel condannare i pogrom anti musulmani del 2013 e le persecuzioni dei Rohingya, considerati immigrati illegali dal Bangladesh. In realtà, Aung San Suu Kyi aveva preso posizione, tanto che le fazioni più estremiste del Sangha, la comunità monastica buddista, avevano iniziato il boicottaggio dell’Nld schierandosi con i partiti ultranazionalisti sostenuti dai militari (come fatto anche nelle elezioni di novembre). Ma non era caduta nella trappola dei militari, evitando di schierarsi decisamente a favore dei musulmani in quella che era soprattutto una guerra tra poveri che le avrebbe alienato gran parte della popolazione. Un realismo forse un po’ cinico, ma consapevole della necessità di scongiurare un fronte interno in un paese che potrebbe essere disintegrato dai conflitti etnici e in cui la priorità assoluta è la riconciliazione nazionale.
Peccato che anche la riconciliazione sia divenuta un’accusa. Secondo alcuni esponenti della dissidenza birmana, che appaiono quasi confusi dal nuovo corso, e dalla comunità dei politicamente puri online, Aung San Suu Kyi non avrebbe dovuto invitare il popolo birmano a “perdonare e dimenticare” i crimini del regime militare. Ma la Signora è ben cosciente che solo in questa prospettiva i militari sono disposti ad accettare il cambiamento. Non è un caso e suona come una minaccia la dichiarazione fatta pochi giorni fa da Min Aung Hlaing, comandante in capo di Tatmadaw, le forze armate, nel corso di una ciclopica parata. “L’esercito ha favorito il cambiamento e lo sviluppo. Ma non accetterà alcuna deviazione dalla via stabilita”, ha avvertito. In caso contrario il Myanmar potrebbe trasformarsi in quella “democrazia caotica” che è divenuta l’incubo dei paesi del sud-est asiatico. Proseguendo sulla “giusta direzione”, invece, “entro dieci, quindici anni il Myanmar godrà di uno sviluppo superiore a ogni previsione” e a tutti i paesi dell’area.
Secondo Alberto, che si occupa di progetti immobiliari e turistici, è già così. “Basta vedere il nuovo aeroporto di Yangon”. E probabilmente, grazie ad Aung San Suu Kyi e alla sua politica di riconciliazione tutto accadrà molto più in fretta. “Si respira un’atmosfera nuova, dinamica. I vecchi crony dovranno farsi da parte per lasciare spazio a imprenditori non compromessi coi militari”. Questa, del resto, è una delle condizioni poste dall’Amministrazione statunitense per eliminare del tutto le sanzioni finanziarie che impediscono ai cittadini americani di fare affari con i militari o chiunque sia legato al precedente regime (è il caso di Steven Law, proprietario della Asia World Co., che ha costruito il nuovo aeroporto). E la Birmania avrà tanto più bisogno degli investimenti Usa, quanto più la Cina rivolge la sua attenzione alla Thailandia: la giunta di Bangkok ha trovato buoni alleati a Pechino e il corridoio economico che dallo Yunnan porta all’oceano Indiano attraverso quel paese è più conveniente di quello che passa per la Birmania.
Quale ministro degli Esteri e dell’Energia, Aung San Suu Kyi potrà giocare su questi scenari a tutto vantaggio del suo partito e della Birmania. Ma perché lo sviluppo sia reale e continuo il nuovo governo dovrà soprattutto garantire la stabilità e la sicurezza interne. Il che significa un accordo con tutte le minoranze etniche. E anche in questo senso Aung San Suu Kyi sembra aver imboccato la strada giusta. Innanzitutto con la designazione di uno dei due vicepresidenti, Henry Van Thio, di etnia Chin. Quindi con la creazione del dicastero degli Affari etnici, affidato a Naing Thet Lwin, di etnia Mon, che negli anni 80 era a capo di un movimento antigovernativo. Ma anche per ciò è fondamentale la riconciliazione con i militari: senza il loro appoggio è impossibile gestire i rapporti con le minoranze che alimentano il proprio potere col traffico di droga.
Il capolavoro, quindi, per alcuni non è del tutto compiuto: già rilevano alcune piccole imperfezioni, come i falsi curricula di qualche ministro della Nld. In compenso il numero dei ministri è stato ridotto da 36 a 21, ma è stato fatto notare che Suu Kyi è l’unica donna e che l’età media è troppo alta. Ancora una volta il sonno della ragione genera incubi. Per i Birmani, s’è detto, il sogno continua. La piena democrazia, ha detto il neo presidente Htin Kyaw, “è un desiderio politico per cui il popolo ha atteso per molto, molto tempo. Dobbiamo essere pazienti”.