In Afghanistan Stato islamico e talebani litigano sul business dell'eroina
Desarak, Afghanistan meridionale. Nel distretto di Achin ci sono circa settanta fabbriche di eroina, a due ore di macchina da Jalalabad, il capoluogo della provincia di Nangarhar che confina con il Pakistan. Le vallate verdi e i campi di ulivi che si attraversano per raggiungerlo ricordano che l’inverno è mite e l’estate torrida, il clima migliore per la crescita del papavero da oppio. I carichi di eroina già lavorata partono da questa zona dell’Afghanistan verso paesi confinanti, come il Pakistan e l’Iran, e raggiungono anche l’Europa, in particolare l’Italia e l’Inghilterra.
Per molti anni le robuste operazioni antidroga della Nato e i progetti di sviluppo per la produzione di olio extravergine hanno reso questa provincia il fiore all’occhiello delle strategie antiguerriglia americane. Secondo l’Afghanistan Research and Evaluation Unit (Areu), che è un istituto di ricerca riconosciuto tra i dieci migliori in Asia, i governi occidentali mandavano qui i consulenti militari e civili per imparare il modello applicato sul territorio dal Provincial Reconstruction Team (PRT) guidato dagli americani e esportarlo poi nel resto del sud dell’Afghanistan.
Eppure, il governo ombra dei talebani non ha mai smesso di operare in questa zona, autofinanziandosi anche con le tasse imposte ai trafficanti locali. Per ogni chilo di eroina, il cui prezzo si aggira intorno ai duemila dollari, i talebani prendono circa il 10 per cento. La tribù locale pasthun degli Shinwari, alla quale appartiene un buon numero di trafficanti, non ha mai visto di buon occhio questa tassazione e si allea o mostra ostilità verso i talebani a seconda dell’atteggiamento più o meno accondiscendente del governo verso i traffici. Secondo fonti legate al narcotraffico locale, i signori della droga pagano mazzette anche all’altro lato della guerra: rappresentanti locali del governo, comandanti di milizie pro-governative e membri del Parlamento.
L’arrivo dello Stato islamico nel 2015 ha complicato ancora di più questa situazione. In un primo momento, la tassazione imposta dal nuovo gruppo operante in Afghanistan si limitava al 7 per cento. Con il tempo però, l’atteggiamento dello Stato islamico verso il narcotraffico è cambiato. Lo scorso giugno i militanti del gruppo hanno iniziato a bruciare le fattorie di eroina sul territorio, e hanno cominciato una lotta violenta che coinvolge anche la popolazione civile. Nonostante lo Stato islamico usi motivazioni religiose per giustificare la battaglia contro la droga, sono in molti a credere che l’operazione sia invece una manovra economica per indebolire il potere dei rivali sul territorio.
I talebani, dopo il 2001, avevano usato il narcotraffico contro le operazioni della coalizione internazionale in Afghanistan. Prima dell’arrivo delle truppe occidentali, la coltivazione di oppio era concentrata soprattutto a nord del paese, nelle zone al di fuori del controllo talebano. Secondo l’agenzia di ricerca governativa americana Usip, United State Institute of Peace, il gruppo islamico afghano ha iniziato a essere coinvolto nel business dell’eroina soltanto dopo il 2001, offrendo sicurezza e proteggendo la crescita delle coltivazioni del papavero d’oppio anche a sud. Questo atteggiamento è riuscito a fargli riconquistare “i cuori e le menti” dei contadini e dei clan locali, che hanno visto in questo business l’unica fonte di guadagno sostenibile. I derivati dalle tasse imposte hanno anche contribuito a finanziare la rinascita del gruppo negli anni successivi, allontanando ulteriormente la popolazione locale dalle autorità governative, accusate di non offrire alternative economiche.
Nel 2015, secondo fonti interne allo Stato islamico, circa 200 membri della tribù Shinwari nel distretto di Achin hanno giurato alleanza al nuovo gruppo. La scelta ha confermato un atteggiamento di opposizione verso le forze talebane, anche in nome di più favorevoli interessi economici dovuti alla tassazione differente. Quando l’estate scorsa sono iniziate le operazioni contro le fabbriche di eroina, la situazione è cambiata. Quattro mesi fa, diversi uomini appartenenti alla stessa tribù hanno preso le armi contro lo Stato islamico, abbracciando così la stessa lotta dei talebani contro il nuovo gruppo estremista. “Non è vero che ci sono afghani tra loro – sostiene Mullah Rahim Haji, a comando di 50 di questi uomini – La maggior parte degli aderenti allo Stato islamico sono pachistani, uzbeki, arabi e altre nazionalità. E’ nostro compito difendere le nostre famiglie dalla brutalità di questi stranieri”.
Per ora la milizia e le forze di polizia guidate dal governatore distrettuale, Haji Ghalib Mujahid, sono riuscite a fermare l’avanzata dello Stato islamico anche grazie all’aiuto dei bombardamenti dell’esercito afghano e americano. I giornali locali hanno però accusato la milizia di compiere sul terreno operazioni altrettanto brutali di quelle di cui è accusato lo Stato islamico. Nel dicembre scorso, quattro combattenti di Baghdadi sarebbero stati decapitati e le loro teste esposte sulla strada principale del distretto in segno di vendetta per l’uccisione di altri quattro uomini della milizia locale.
“Quando lo Stato islamico non sarà più una minaccia scioglieremo la milizia”, rassicura Rahim Haji. Per ora, però, sono le macchine dei suoi uomini a pattugliare le strade, allestendo posti di blocco assieme alla polizia. Nel frattempo, il governatore distrettuale si gode la vittoria temporanea, acclamato da negozianti e bambini, che lo ringraziano per avere riaperto le scuole fino a un mese fa usate come basi dallo Stato islamico.
Dietro le montagne che segnano il confine tra l’Afghanistan e il Pakistan continuano a stazionare gruppi appartenenti allo Stato islamico. Solo la scorsa settimana, ci sono stati scontri non solo nell’area periferica di Desharak, ma anche in altre zone del distretto: “Abbiamo ripreso l’80 per cento del territorio – spiega il governatore distrettuale Haji Ghalib – ma la lotta per il rimanente 20 è ancora aperta”.