Controlli di sicurezza all'aeroporto di Tel Aviv: sotto il vestito niente?
All’aeroporto più sicuro del mondo, il Ben Gurion di Tel Aviv, il posto dove nessuno potrebbe spingere un carrello e farsi saltare in aria, o mettere una bomba, o salire su un aereo per dirottarlo scattando selfie, bisogna arrivare preparati psicologicamente e con molto anticipo, e senza nulla, nel bagaglio a mano, che vi vergognereste di mostrare a vostra madre. Perché gli uomini e le donne dell’esercito controlleranno tutto, anche i libri, dopo avervi chiesto: il bagaglio l’hai preparato tu? Da quando l’hai chiuso, è stato sempre con te? Quindi, se avete bambini che infilano di nascosto nella borsa mitra giocattolo o petardi, minacciateli senza paura di esagerare.
Superare il monitoraggio è una cosa seria e necessaria, a ogni aspirante passeggero viene attribuito un codice di pericolosità percepita, che dipende anche dal modo in cui risponde alle domande (devo avere sbagliato qualcosa, perché nell’adesivo con codice a barre che hanno appiccicato sul retro del passaporto il mio livello di pericolosità era 5 su 6, per fortuna l’ho scoperto dopo), ma il primo controllo viene fatto, se andate in auto o in taxi, a circa un chilometro dall’aeroporto: documenti, biglietto, motivo del viaggio; il secondo, apparentemente casuale, appena entrati al Ben Gurion: dove vai? su quale volo? da dove vieni? Pensavo: non ho niente da nascondere, non ho nemmeno lo shampoo nella borsa, sono italiana, ho comprato anche un melograno a Gerusalemme, sto tornando a casa mia, sto chiacchierando piacevolmente con italiani incontrati al terminal.
Ma quando un gigantesco soldato mi ha fatto uscire dalla fila ordinata per il check-in e mi ha detto bruscamente, davanti a tutti: si sieda là e aspetti, tenendosi il mio passaporto, ho sentito gli sguardi di riprovazione di quegli italiani (“le avranno trovato della droga”, ho sentito dire alla signora con scarpe catarifrangenti e accento bresciano). Eravamo quasi amici, un minuto prima, tutti con una storia da raccontare su dove eravamo durante l’attentato a Dizengoff, e adesso erano pronti a giurare che comunque sembravo una tossica.
Il gigantesco soldato ha fatto sedere un altro italiano accanto a me, un sardo a cui avevano appena chiesto i nomi dei nonni, perché a vederlo così sembrava un siriano che parlava sardo, ma lui ci era abituato, sapeva che l’avrebbero fatto spogliare. Spero che lui fosse pericoloso almeno 6. Pensavo alle mie malefatte, a quella multa non ancora pagata, allo sguardo dell’agente, una donna, quando ha visto sul mio passaporto i timbri turchi dell’estate precedente.
Lo giuro ero in vacanza, no non conoscevo nessuno, non parlo l’arabo, non faccio parte di congregazioni, adesso che ci penso non mi sono nemmeno tanto divertita, quel mare è sopravvalutato. All’ultimo metal detector, scalza, non ho suonato, e quando un’altra agente mi ha richiuso la valigia augurandomi buon viaggio ho ringraziato con forse troppo calore e ho raggiunto la signora di Brescia che si godeva lo spettacolo. Le ho detto, molto seria e contrita: attenta, l’hanno sentita mentre parlava di droga, ora mandano la polizia sull’aereo a perquisirvi, ma non si preoccupi è la prassi. In aereo ho dormito, tranquilla e al sicuro, mentre la signora, mi hanno raccontato dopo, ha singhiozzato tutto il tempo.