Recep Tayyip Erdogan e Barack Obama (foto LaPresse)

Perché Erdogan è la “delusione” della politica estera americana

Eugenio Cau
Obama credeva che il fondatore dell’Akp fosse la perfetta congiunzione dei due mondi: un leader forte ma democratico, un musulmano moderato che però rispetta le libertà civili

Roma. Durante la colossale intervista concessa a marzo a Jeffrey Goldberg dell’Atlantic, il presidente americano Barack Obama ha parlato diffusamente del suo rapporto con i grandi del mondo: la cancelliera tedesca Angela Merkel è “uno dei pochi leader stranieri che Obama rispetti”, Papa Francesco è “il suo leader preferito”. Nei confronti del presidente turco Recep Tayyip Erdogan, invece, Obama prova un sentimento di delusione cocente. Al Nuclear security summit che si chiude oggi a Washington, il presidente turco è uno degli ospiti più attesi tra i 56 capi di stato e di governo invitati ma, come ha scritto questa settimana il Wall Street Journal, Obama non ha voluto riceverlo in un incontro bilaterale nonostante le richieste di Ankara. Il presidente ha rifiutato un invito di Erdogan a partecipare all’inaugurazione di una moschea a Washington finanziata da Ankara, e non è previsto alcun meeting ufficiale tra i due. Erdogan incontra il vicepresidente Joe Biden, e gli analisti dicono che questa freddezza è sintomo di una relazione tra Stati Uniti e Turchia che non raggiungeva punti così bassi da decenni.

 

“Erdogan ha deluso Obama come pochi altri”, ha scritto Goldberg sull’Atlantic. All’inizio del suo mandato anche il presidente americano, come molti osservatori, si era convinto che il fondatore del Partito per la giustizia e lo sviluppo, l’Akp, fosse la perfetta congiunzione dei due mondi: un leader forte ma democratico, un musulmano moderato che sapeva coniugare la devozione con il rispetto delle libertà civili, la crescita economica con un deciso afflato atlantista. La Turchia è un alleato dell’America da sessant’anni e i suoi due leader, Erdogan e Obama, hanno goduto di una certa sintonia (Obama la definì una “stretta amicizia” personale), iniziata, ha scritto l’analista Soner Cagaptay sul Washington Institute, dopo un colloquio faccia a faccia nel luglio 2010. “Ma Obama oggi considera Erdogan un fallimento e un leader autoritario”, scrive Goldberg, “che si rifiuta di usare il suo enorme esercito per portare stabilità alla Siria”.

 

I rapporti hanno cominciato a raffreddarsi nel 2013. La repressione violenta dei manifestanti a Gezi Park, condannata da Obama, il colpo di stato militare in Egitto contro il presidente Mohammed Morsi, alleato cruciale di Erdogan abbandonato dalla Casa Bianca, e i dissidi intorno alla guerra siriana che si trascinano fino a oggi sono stati gli eventi che hanno provocato la fine dei buoni rapporti tra i due leader. Erdogan non può perdonare a Obama il suo sostegno ai guerrieri curdi in Siria, “boots on the ground” della coalizione occidentale che per Ankara sono un nemico più temibile del Califfato islamico, mentre Obama non può perdonargli la sua posizione ambigua davanti alla guerra civile che sta dilaniando milioni di persone al confine sud-est della Turchia. La frustrazione di Erdogan è tale che martedì, ha scritto Foreign Policy, il presidente turco avrebbe dedicato una cena off the records con alcuni importanti think tanker americani a criticare senza pietà l’Amministrazione Obama e la sua strategia nella guerra di Siria (ieri invece ci sono stati tafferugli in strada mentre Erdogan pronunciava un discorso presso un altro think tank di Washington, il Brookings Institute).

 

La vera delusione di Obama, però, nasce dalla discesa di Erdogan verso uno stile di governo sempre più autoritario, in cui alla repressione dei media, agli attacchi contro i nemici politici (come Fethullah Gülen, predicatore e imprenditore turco esiliato in Pennsylvania) e all’uso del potere giudiziario contro i dissidenti si alternano le invettive rabbiose contro i complotti dell’occidente. Obama era convinto di avere trovato un interlocutore ragionevole nel mondo musulmano, merce rara. Si è trovato tra le mani un autocrate. Goldberg ricorda che il re di Giordania, Abdallah II, lo aveva avvertito: “Una volta Erdogan mi ha detto che per lui la democrazia è come una corsa in autobus: ‘Appena arrivo alla mia fermata, scendo’”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.