“Più Europa”. Un coro fuoriluogo
Sul Corriere della Sera del 26 marzo, Laura Boldrini, Presidentessa della Camera dei Deputati, chiede più Europa per affrontare la sfida dell’islamislo radicale. Non è la prima, David Sassoli – europarlamentare del Pd, sul suo blog sull’Huffington Post – all’indomani della strage di Bruxelles della scorsa settimana ha espresso pensieri analoghi, così come il premier Matteo Renzi, già dopo gli attentati contro Charlie Hebdo e quelli del Bataclan, o Fareed Zakaria, famoso opinionista americano, in un’intervista sempre al Corriere, ma del 27 marzo. Rispetto agli altri interlocutori, la Presidentessa Boldrini svolge un ragionamento più elaborato e profondo che pertanto merita maggiore attenzione.
Laura Boldrini, presidente della Camera dei deputati
Il ragionamento della Boldrini è che, “agendo da solo, nessun paese può davvero garantire la sicurezza che promette”. Per questo, a suo modo di vedere, “ci vuole più Europa”. Bisogna far “lavorare insieme i servizi di intelligence, condividere informazioni tra gli apparati di sicurezza, far agire squadre investigative comuni”, e poi ancora “colpire il sedicente Califfato nelle sue fonti di finanziamento”, senza dimenticare che “ci vuole il coraggio di chiamare alle proprie responsabilità gli stati […] che all’Isis offrono supporto”. Tutto ciò, a detta della Presidentessa, è però raggiungibile solo attraverso maggiore integrazione politica in Europa e precisamente con un’unione federale di Stati.
Purtroppo la conclusioni a cui giunge la Presidentessa Boldrini si basano su una serie di fallacie logiche e confusioni lessicali. Ne deriva che il richiamo alla necessità di una maggiore integrazione politica, per quanto politicamente legittimo, sia logicamente infondato. Vediamo brevemente le ragioni.
In primo luogo, nonostante la loro natura federale, e nonostante l’esistenza al loro interno di agenzie di intelligence federali (come Fbi, Cia, o Nsa), gli Stati Uniti sono stati comunque vittime del terrorismo jihadista (e non) nel passato più recente. In altre parole, l’integrazione politica non è sufficiente a neutralizzare questa minaccia. La ragione è semplice: il terrorismo opera su più livelli e in diversi ambiti, riuscendo così a sfuggire alle maglie di singole agenzie di intelligence. Come ha spiegato Amy Zegart, docente alla Stanford University, nel suo libro “Spying Blind”, la cooperazione tra diverse agenzie di intelligence è quindi fondamentale per debellarlo. Ma questa cooperazione rimane estremamente difficile tanto tra agenzie di nazionalità differenti che tra quelle di un singolo paese. L’integrazione politica europea non può risolvere questi problemi. Pertanto, dipingerla come come una soluzione al terrorismo non è solo errato, è anche pericoloso, in quanto in caso di nuovi attacchi, si rischia inevitabilmente di minare ulteriormente la già debole legittimità di cui gode l’Europa in questo momento.
Secondariamente, l’integrazione politica non è neppure necessaria per migliorare la cooperazione tra diverse agenzie di intelligence. Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Australia e Nuova Zelanda cooperano infatti estensivamente ed efficacemente nel campo dell’intelligence (“Five Eyes”) senza che vi sia alcuna reale integrazione politica tra di loro: alla base, vi sono cultura e valori comuni insieme alla fiducia reciproca. In altri termini, si può cooperare senza integrarsi. Se tra i paesi europei manca questa fiducia, il problema non va quindi ricercato nell'insufficiente livello di integrazione politica.
In terzo luogo, in passato, quando non c’erano né Schengen né il mercato comune, il terrorismo si riusciva ugualmente a muovere con una certa facilità tra i vari paesi europei. Basti pensare alle variegate connessioni tra Ira, Eta, gruppi filo-palestinesi, Br, e Raf, senza considerare la vergognosa politica francese di asilo offerto ai terroristi italiani o al finanziamento di cui godeva l’Ira da parte delle comunità irlandesi dell’East Coast. Ebbene, il terrorismo degli anni Settanta, così come la mafia negli anni Ottanta e Novanta, è stato sconfitto non grazie all’integrazione politica europea, ma accrescendo le capacità dell’anti-terrorismo nazionale, o dell’anti-mafia. Stando alle informazioni disponibili, gli attacchi del 21 marzo a Bruxelles sono il prodotto – oltre che, come ovvio, della furia dei terroristi islamici – di un’intelligence belga sotto-dimensionata, spaccata dalle divisioni linguistiche che caratterizzano il paese e stritolata tra inefficienti sovrapposizioni di responsabilità politica ai vari livelli di governo, da quello locale a quello nazionale.
Ci sono quindi pochi elementi per corroborare l’idea che un Fbi europea avrebbe risolto questi problemi. Più semplicemente, limitate risorse e scarso coordinamento interno, non assenza di cooperazione e integrazione internazionale, hanno favorito gli attacchi della scorsa settimana. E’ dunque su questi punti che bisogna agire.
Proprio la creazione di un Fbi europea merita un’ultima considerazione. Almeno nel breve periodo, questa proposta rischia di avere, nel migliore dei casi, consequenze nulle e, nella peggiore delle circostanze, addirittura effetti controproducenti. Creare una Fbi europea, o anche solo delle unità multinazionali per rafforzare il coordinamento tra le varie agenzie nazionali, richiede infatti del personale. Questo personale, se si vogliono dei risultati, deve essere competente. E il personale competente, al momento, opera solo presso le agenzie di intelligence nazionali. Se questo personale competente viene trasferito a Bruxelles per per creare una Fbi dell’Ue, si indeboliscono inevitabilmente le strutture di intelligence esistenti. L’unico beneficiario finisce per essere il terrorismo jihadista. L’alternativa è trasferire personale non competente: in questo caso, i risultati sarebbero nulli.
Basta sminuire difesa e sicurezza
Cosa fare, dunque? In primo luogo, l’Europa ha, troppo a lungo, sminuito l’importanza degli apparati di difesa e sicurezza. Vanno quindi aumentati i livelli di spesa per garantirne l’efficacia e l’operatività. L’intelligence rappresenta generalmente una quota minoritaria della spesa in sicurezza e difesa di ogni paese. Secondo i dati disponibili gli Stati Uniti hanno speso in intelligence tra i 50 e gli 80 miliardi di dollari l’anno nel periodo post-11 settembre. Questa cifra è pari alla spesa militare totale – ovvero quella che include non solo l’intelligence, ma anche i sottomarini, le armi nucleari, i carri armati – di Francia e Gran Bretagna, i due paesi più grandi dell’area euro. Pensare che la cooperazione e l’integrazione europea possano sostituire l’assenza di risorse è semplicemente illusorio. Piaccia o non piaccia, bisogna verosimilmente spendere di più. In secondo luogo, proprio la disattenzione per la difesa e la sicurezza ha lasciato incancrenire situazioni critiche come dimostra lo stato dei servizi di intelligence belgi (e anche in parte francese). Se anticipare tutti gli attentati terroristici è difficile, gli attentati degli ultimi 15 mesi in Europa sembrano suggerire che in alcuni paesi europei non si sia fatto tesoro degli errori che hanno favorito l’11 settembre. Il ruolo dell’Ue, come della Nato, può essere però certamente importante, in particolare favorendo una convergenza nelle riforme da attuare.
Infine, migliore e maggiore cooperazione tra i paesi europei, anche nel campo dell’intelligence, sarebbe ovviamente importante. Ma altrettanto importante è anche la cooperazione giudiziaria, se non addirittura l’armonizzazione delle norme relative al terrorismo internazionale e, soprattutto, a misure specifiche (quali intercettazioni e fermi preventivi).
Cooperazione e armonizzazione non richiedono però integrazione politica. Si può cooperare senza integrarsi (“Five Eyes”) e non cooperare quando si è politicamente integrati (Fbi e Cia pre-11 settembre). Se i paesi europei non sono intenzionati a cooperare e armonizzare le proprie regole sull'anti-terrorismo, non è certo imponendo loro maggiore unità politica che questo problema può essere risolto. Anzi, come illustrato in questo articolo, nel breve periodo, una tale proposta rischia solo di indebolire ulteriormente le agenzie di intelligence nazionali. Nel lungo periodo, invece, si rischia solo di favorire la delegittimazione delle istituzioni europee. Esattamente l’opposto di quanto i sostenitori dell’Europa desiderano.
Mauro Gilli è post-doctoral fellow al Dickey Center for International Understanding, Dartmouth College (Hanover, NH)