Silete politologi! Quando si coccolava il Belgio, “democrazia mite e serena”
Roma. Subito dopo il 15 settembre 2008, quando fallì la banca americana Lehman Brothers, la categoria degli economisti passò un brutto quarto d’ora. Che però è durato anni, e riaffiora tuttora nella polemica pubblica. Nel novembre di quell’anno, intervenendo alla London School of Economics, perfino la pacata regina d’Inghilterra Elisabetta II sfidò gli accademici e i ricercatori convenuti con il noto quesito sulla crisi finanziaria: “Perché nessuno l’ha vista arrivare?”. Il ministro dell’Economia italiano, Giulio Tremonti, fu ancora più perfido e assertivo. “Silete, economisti!”, così ammonì i suoi critici.
Dopo i recenti attacchi terroristici dello Stato islamico in Europa – con il Belgio allo stesso tempo culla e obiettivo degli stragisti – sul banco degli imputati sono finiti in tanti, ma nessuna categoria intellettual-accademica in particolare. Gli attentatori e l’ideologia che li muove sono i responsabili immediati degli eccidi, su questo non ci piove (se si esclude il complottista Giulietto Chiesa). Poi però, nel dibattito mediatico, è partita la solita caccia agli errori dell’intelligence, agli errori della polizia, agli errori delle autorità politiche belghe, agli errori della magistratura locale, agli errori dell’occidente brutto-sporco-e-cattivo. Adesso che tutte le piste accusatorie sono state battute, è il caso forse di suggerirne un’altra. Quella che porta dritti fino ai politologi più in voga del pianeta. Il Belgio infatti è stato indicato per anni dagli esperti di sistemi politici come un prototipo di “democrazia mite e serena”. Al cospetto delle immagini degli abitanti del quartiere di Molenbeek a Bruxelles che si rivoltano contro la polizia per l’arresto del terrorista Salah Abdeslam, di fronte alle statistiche che indicano il piccolo paese nordeuropeo come il più prolifico in termini di estremisti che si arruolano con il califfo in Siria e in Iraq, cosa direbbe infatti Arend Lijphart, politologo olandese che fin dagli anni 90 ha collocato su un piedistallo la democrazia belga? Gli studi di politica comparata di Lijphart, nel frattempo naturalizzato americano e in forza alla University of California, hanno influenzato generazioni di suoi colleghi occidentali, sono diventati tra i riferimenti più citati anche in Italia, dove l’opera dello studioso è stata pubblicata in varie edizioni dal Mulino. Lijphart ha identificato fin dall’inizio due modelli idealtipici di democrazia, quello maggioritario e quello consensuale, rafforzando nel tempo questa descrizione con uno stuolo di osservazioni empiriche. A un estremo, quello maggioritario, c’è l’Inghilterra. All’altro estremo, quello consensuale, ci sono l’Olanda (con la sua società divisa in “pilastri” in cui è vissuto Lijphart) e in particolare il Belgio. Per le democrazie maggioritarie – hanno ripetuto generazioni di politologi – il termine “democrazia” va inteso come “governo della maggioranza del popolo”. Per quelle consensuali, risulta invece più adatta la definizione del premio Nobel per l’Economia Arthur Lewis: in democrazia “tutti quelli che sono toccati da una decisione dovrebbero avere la possibilità di partecipare direttamente o tramite rappresentanti eletti”.
E il Belgio, per i “comparatisti”, è il paese che ha annacquato il più possibile il principio del “chi vince governa”, giudicato troppo maggioritario o meglio brutale. Da qui l’esplosione del numero dei partiti politici, la rappresentanza iper proporzionalista in Parlamento, il dominio del legislativo sull’esecutivo, l’esaltazione del corporativismo dei gruppi d’interesse, l’affermarsi di un federalismo spinto e di un multiculturalismo di stato. Tutte caratteristiche – hanno sostenuto Lijphart & co. passando con disinvoltura dall’analisi descrittiva a quella prescrittiva – che consentono di smussare gli angoli dei confronti più spigolosi, politici, religiosi o etnici. Il Belgio, con la sua laboriosa convivenza di valloni, fiamminghi e tedeschi, sarebbe stato il paradigma di questa “mitezza”. Falsificata però nei primi anni 2000 dall’emergere di movimenti etno-regionalisti, e più recentemente dalla scoperta di quartieri dove la sharia è più forte dello stato di diritto. Per scongiurare a tutti i costi una versione “antagonistica” dei conflitti politici, si è finito per negare anche – a suon di ingegneria sociale – una salutare e fisiologica opposizione “agonistica” fra interessi. Così la pax consensuale si è trasformata lentamente, ancora di più dopo la mancata assimilazione delle comunità islamiche, in una “Bosnia fredda” nel cuore dell’Europa. Che quando si surriscalda viene trascinata nel primordiale confronto tra amico e nemico invece che adattarsi a quello liberal-democratico tra amico e avversario.