Dieci blogger fatti a pezzi col machete al grido di “Allah è grande” e non una riga sui giornali
Roma. Un ventottenne dottorando in Giurisprudenza di Dacca, in Bangladesh, mercoledì è di ritorno dall’università. A casa si siede al computer e posta su un blog alcune righe critiche della deriva islamista del suo paese. Il giorno dopo, mentre rientra a casa, Nazimuddin Samad viene avvicinato da quattro uomini che, al grido di “Allah è grande”, lo macellano a colpi di machete e poi, tanto per essere sicuri, gli sparano in faccia. Samad sentiva che erano vicini. “Ho paura di essere ucciso”, aveva scritto tempo fa. “Ma cosa posso fare? E’ meglio morire che vivere con la testa piegata”. Giovedì gliela hanno aperta come una cozza.
Nulla di eccezionale: è il decimo caso nel paese. Blogger, giornalisti ed editori uccisi perché critici dell’islam, una epidemia tale che gli Stati Uniti ieri hanno dichiarato che pensano di offrire asilo politico a un certo numero di blogger in imminente pericolo di vita. Molti scrivevano per il sito Mukto-Mona, ovvero Liberi Pensatori. C’è una hit list con 84 nomi di “blogger satanici”. Da quella lista, undici sono stati già depennati da una “X”. Il gruppo terroristico che dà loro la caccia ha ambizioni globali, tanto da aver incluso nell’elenco anche nove nomi in Inghilterra e sette in Germania (il più noto, Maneer Hassan di Birmingham, ha cambiato identità). La prima che provarono a far fuori, vent’anni fa, fu Taslima Nasreen. Il romanzo che le valse la condanna, “La Vergogna”, è stato bruciato in piazza e la fatwa non sarà ritirata finché Nasreen non “chiederà perdono e darà fuoco ai suoi libri”. Lei si è salvata grazie all’esilio. In tanti sono morti.
Ma queste uccisioni, come quella ieri di Samad, non meritano una riga sui nostri giornali. Blogger meno famosi dei vignettisti di Charlie Hebdo. Storie provenienti non dalla Ville Lumière, ma da una delle città più buie e povere del mondo, Dacca. E non c’è lo spettacolare Ak-47, ma un machete ricurvo, quello del Rwanda. Nessuno per loro ha lanciato il motto “Je Suis Avijit Roy”. Eppure, dal Bangladesh arrivano foto di scrittori in pozze di sangue, di laptop sequestrati dalla polizia in cerca di “prove”, di tastiere bruciate. Come quando si bruciavano in effigie le copie del libro di Salman Rushdie in Europa. Oggi c’è un salto di qualità, con l’uccisione non soltanto dell’autore, ma anche dell’editore. La prima vittima, un anno fa, è stato Avijit Roy, americano capostipite di questi blogger razionalisti (alla moglie hanno staccato un dito). Lo scorso ottobre hanno freddato Faysal Arefin, l’editore di Roy.
Il giovane blogger Nazimuddin Samad, assassinato dagli islamisti in Bangladesh
Eppure, le storie di questi diaristi elettronici restano avvolte da una trasparenza sinistra, come se la loro morte fosse virtuale, come se la rete fosse diventata una gabbia, come se i blogger caduti per mano islamista non meritassero il contagio dei social, come se la viralità fosse riservata soltanto a stupidità e inutilità. D’altronde, quando il mese scorso Teheran ha alzato la taglia sulla testa di Rushdie, portandola a oltre quattro milioni di dollari, dalle nostre parti la notizia è stata accolta con un’alzata di spalle, mentre il New York Times faceva uscire l’edizione pachistana sui blogger uccisi con un enorme buco bianco (“i commenti sul Corano possono offendere i nostri lettori”). E quando venne sgozzato il regista Theo van Gogh in una strada di Amsterdam, al medesimo grido di “Allah è grande”, la nota rivista Internazionale derubricò la macellazione islamica sotto la sezione “spettacoli”. Intanto ci balocchiamo, indignati, con l’intervista a Salvo Riina.