Hiroshima, da santuario atomico a crocevia di strategie politiche
Roma. Domenica scorsa John Kerry è stato il primo segretario di stato americano a deporre una corona di fiori al memoriale di Hiroshima dedicato alle vittime della Bomba atomica. Lo ha fatto durante una cerimonia promossa dal ministro degli Esteri giapponese, Fumio Kishida, che è originario di Hiroshima e che ha deciso di tenere il vertice dei ministri degli Esteri del G-7 nella sua città natale, per sensibilizzare i governi sull’uso delle testate nucleari. Nella città che settant’anni fa fu colpita dall’Atomica sganciata dall’America che fece trecentomila vittime, domenica c’erano anche due italiani: il ministro Gentiloni e Federica Mogherini. Da giorni si parla di una possibile visita del presidente americano Barack Obama a Hiroshima, durante la sua prossima visita in Giappone per il G-7, che si terrà il 26 e 27 maggio a Shima, nella prefettura di Mie, a 500 chilometri da Hiroshima. Niente, per ora, è stato confermato, perché una visita ufficiale nel luogo della Bomba non si può decidere a cuor leggero (lo conferma il briefing stampa di ieri di un funzionario del Dipartimento di stato americano: il presidente ha già detto che sarebbe “onorato” di andare, ma la questione è “molto complicata”).
John Kerry ad Hiroshima insieme al ministro degli Esteri giapponese, Fumio Kishida (foto LaPresse)
In settant’anni America e Giappone hanno trasformato una rivalità sanguinosa in un’alleanza di ferro. A cambiare tutto furono le due Bombe atomiche che nel 1945 colpirono Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone divenne il primo e unico paese ad aver subito i danni di un attacco nucleare. La resilienza della popolazione, ma anche della sua classe politica, permise al paese di superare la resa, accogliendo sconfitta e occupazione e trasformando gli americani in portatori di pace (una reazione sulla quale ancora oggi gli storici s’interrogano, descritta nel libro di John W. Dower “Embracing Defeat: Japan in the Wake of World War II”). Settant’anni dopo, i falchi conservatori della politica giapponese, quelli che sostengono il pacchetto di riforme costituzionali promosse dal primo ministro Shinzo Abe per far tornare il Giappone ad avere un ruolo attivo nelle guerre globali, sono gli stessi che rifiutano l’idea di condannare il periodo imperialista giapponese. Allo stesso tempo, però, sono tra i più forti sostenitori dell’alleanza con l’America. Al contrario, è la sinistra giapponese a opporsi moderatamente all’atlantismo. Eppure oggi il Giappone vive almeno due minacce per cui l’alleanza americana sembra indiscutibile: la Corea del nord e la Cina.
Come spesso succede negli affari asiatici, tutto ruota intorno alle scuse. Kerry non ha chiesto scusa per Hiroshima, e nessun presidente americano lo ha mai fatto. “Alcuni giapponesi domandano con forza non solo una visita presidenziale, ma le scuse ufficiali”, dice al Foglio Jennifer Lind, docente al Dartmouth College e autrice del libro “Sorry States, Apologies in International Politics”. “Credo che questo sia un punto di vista minoritario, però. La maggior parte dei giapponesi guarda con favore a una visita di Obama, per esempio il sindaco di Hiroshima e il ministro Kishida, e dicono di volere soltanto che il presidente ‘vada a vedere’, per capire la devastazione delle armi nucleari e rafforzare il movimento anti-nucleare”. Chi è scettico riguardo a una visita presidenziale, dice Lind, “ha una visione molto complessa e dolorosa. Altri, invece, sono pragmatici, e vedono la polarizzazione della politica americana, capiscono che i falchi potrebbero cavalcare l’evento, e pensano che un nuovo rinnovato rancore potrebbe far male all’alleanza tra Giappone e America”.