Il terzo esilio curdo
Erbil, a chi arriva, può dare l’impressione di un boom edilizio formidabile: gru altissime, illuminate a festa di notte perché gli aerei non ci vadano a sbattere, e scheletri di grattacieli e altri edifici colossali. A guardare meglio sono per lo più lavori fermi, lasciati a mezzo. La guerra alle porte tiene lontani gli investitori e il prezzo del petrolio tiene a stecchetto il governo. Tranne quelli dei peshmerga combattenti, gli stipendi pubblici sono fra dimezzati e ridotti a un terzo, e versati con mesi di ritardo. Siamo seduti al tè sotto la Cittadella (trenta centesimi a tazzina) e due professionali fratellini lustrascarpe offrono il loro servizio: sessantacinque centesimi al paio (traduco dai dinari iracheni). Il mio vicino Ali simula un rifiuto indignato: “Me le sono fatte lucidare ogni giorno, poi li ho interrogati e ho scoperto che guadagnano quattrocento dollari, più di me all’Accademia”. Ali è un pittore famoso, ha vissuto trent’anni in Francia, ha cinquantanove anni: “Il prossimo anno divento saggio”. E’ tornato perché vuole far parte della cosa. La regola, dice, è di non giudicare. A occhio, tutto sembra degenerato, oriente e occidente. “Ma bisogna guardare, impregnarsi. Mi dico che dev’esserci una logica, una ragione curda. Io la cerco.
C’è una vita così pacifica, nonostante tutto. Guarda la cima del minareto, con il nido della cicogna sempre abitato. Guarda i muri del bazaar coperto, con i nidi progettati fin dall’inizio per ospitare le colombe protettrici. Tutti mangiano molto, e in una specie di fretta. Somiglia un po’ al mondo greco antico, il bonheur, l’ozio. I ragazzi arrivano all’università senza sapere niente di filosofia, di Freud. Ai nostri tempi avevamo letto Victor Hugo e Marx prima di partire. Vai a vedere, c’è una strada per soli maschi, Iskan, divisa fra sostenitori del Barcellona e del Real Madrid, e preclusa a chiunque altro: botte da orbi”.
Un combattente curdo nei pressi di Kirkuk (foto LaPresse)
A Kirkuk il 2 aprile – il Real ha battuto il Barça 2 a 1 – si è sparato a volontà. A Suleymaniah un’analoga strada da pazzi si chiama Saholaka (vuol dire la via del ghiaccio, per la fabbrica del ghiaccio, che qui si porta ancora sulla spalla sopra un sacco di tela e pagliuzze). C’è un’esistenza, dice, fiaccata da trent’anni di dittatura. La guerra è arrivata a tradimento su una generazione dorata, ma nel senso della doratura di superficie, l’orpello (Ali studiò a Firenze): i soldi sono arrivati all’improvviso, e questi non hanno conosciuto Saddam, non hanno sofferto. Ma ci sono tanti poveri, dico. “Per i poveri – scherza – non cambia niente il taglio degli stipendi, perché tanto non hanno uno stipendio”. I poveri, quelli che chiedono l’elemosina, sono la più grande sorpresa di questo mio nuovo soggiorno: non ci sono più. Un paio di mesi fa sono stati rastrellati e portati in un campo allestito a Dibaga, sulla strada da Erbil a Makhmour, col divieto di tornare in città. Erano dilagati, in proporzione agli arrivi di profughi, alla ressa dei questuanti ai semafori, donne e bambini soprattutto, era già subentrato un solido racket di pulitori di vetri, e tutta la solita storia. Al grande parco Sami Abdurrahman c’è l’International Book Fair: modesta, con una grande affluenza e un calo delle vendite. Qualche pubblica preoccupazione per un interesse peculiare dei più giovani ai testi islamici. Gli stand sauditi all’entrata, tanto per ricordarmi il proposito torinese di dedicare all’Arabia Saudita il Salone. Molti stand libanesi.
Diceva un vecchio proverbio che l’Egitto scrive, il Libano pubblica e l’Iraq legge. Bei tempi. L’editoria curda è anche lei fiacca, trionfa Facebook. Censura sull’informazione non ce n’è: “C’è una libertà di stampa capovolta: puoi pubblicare dovunque, ma nessuno ti legge”. Le peripezie del petrolio nei racconti locali sono rocambolesche. Il petrolio dell’Isis che arriva in Israele via Siria a nove dollari, quello curdo a venti dollari, e alla Turchia praticamente gratis, per l’accordo che scambiò la pipeline con cinquanta anni di sfruttamento. Ora è alla firma l’accordo per la pipeline con l’Iran, dove il petrolio curdo arrivava già di straforo coi camion, a prezzi stracciati, e ne tornava anche in forma di benzina da strapazzo. “Il petrolio è una maledizione, ammazza tutto quello che il genere umano aveva imparato a fare: tutto viene da fuori, nemmeno i cetrioli sono più curdi”. Nemici ufficialmente irriducibili, Iran e Turchia hanno i più solidi accordi su petrolio e gas. “L’Iran, in un giro di anni, fornirà l’elettricità all’intero medio oriente. L’Iran spinge in avanti le sue frontiere, come l’impero romano: in Egitto c’è un’aria di ritorno alla dinastia sciita fatimide”.
Erbil, una cena fra rimpatriati dall’Europa, che guardano al Kurdistan cosiddetto iracheno un po’ da dentro un po’ da fuori. “Dobbiamo tenere una distanza. E riconoscerci una debolezza: non eravamo qui, e possiamo ripartire in qualunque momento, a differenza degli altri, e ce lo fanno sentire”. Siamo al terzo esilio, scherzano: eravamo qui sotto Saddam, poi stranieri in Europa, ora, dimezzati, di nuovo qui. Ali ci ha fatto un master, sul rapporto fra pittura astratta ed esilio, e sulla de-culturazione, come la chiama. Siamo soli uomini, come pressoché dappertutto: è la gran differenza coi curdi siriani del Rojava e i curdi turchi fra Demirtas e Pkk, che hanno le donne in prima fila, di fatto e di diritto. Soli uomini che non sembrano sentirsi uomini soli, e parlano di donne. Ali studiava all’Accademia alla scuola di Fernando Farulli, e vendeva borse agli Uffizi: poche borse, parecchie ragazze tedesche. La posizione di commesso lo rendeva affidabile. Fu licenziato quando un collega delatore riferì che vendeva meno borse e cinture di quante ne regalasse. Allora era difficile trovare lavoro, dice Lokman, gli italiani ce lo portavano via, anche da lavapiatti. Kamo ricorda notti favolose come quella della vittoria dell’Italia ai mondiali: poteva essere troppo lungo e complicato spiegare che cos’era un curdo, così le ragazze (“tedesche”, per antonomasia) non sapevano di aver fatto l’amore con i curdi. Quando lamento ennesimamente l’assenza di donne dalla conversazione, sospirano, poi Bilal ripesca la storia che “l’assenza della donna la rende più importante”. E’ l’oriente, dice, insignificante o severo fuori, lusso e voluttà dentro –“come un bordello”. “L’oriente coltiva il desiderio”. Protesto che il famoso desiderio sia povera cosa, se ha voluto o si è adattato a mutilare il corpo e il desiderio delle donne. Aiuto! Guarda che sono le nonne e le madri a far tagliare le bambine, dice. Certo, replico, è la prima delle proxy wars, le guerre per delega, del genere umano maschile. “Ho un amico – dice Bilal, che va al sodo – che ha sposato una ragazza, molto più giovane di lui. Non aveva saputo che fosse stata tagliata. Una donna normalmente può avere due modi di piacere… – salto qui l’illustrazione dei due modi, dandone per scontata la conoscenza, peraltro problematica, nei lettori. Ebbene, il mio amico dice che la mutilazione genitale le riduce forzatamente all’orgasmo vaginale: dunque la donna esige una virilità più impegnativa”. Un commensale aggiunge con un’aria obiettiva: “C’è chi sostiene che il cibo preparato da una donna tagliata sia più saporito”. Chiedo ad Ali quando abbia sentito parlare per la prima volta delle mutilazioni genitali femminili: solo da pochi anni, dice. Mi aveva risposto così anche la donna più in vista del Kurdistan, la signora Hero Talabani, figlia del fondatore del Pdk e moglie dell’ex presidente dell’Iraq. In realtà, su questo tema associazioni femminili locali con l’Unicef perseguono programmi preziosi ed efficaci, sostenuti dal governo. Ma la strada è lunga. Prima o poi qualche giovane di talento saprà raccontare la miseria sessuale della gioventù curda nel Krg e i tormenti della verginità di fatto obbligata, per i due sessi. Ci sono differenze locali, la più proverbiale è quella fra la ligia e grigia Erbil e la brillante Suleymaniah, ma non così decisive. Il tema dell’omosessualità non è nemmeno sollevato: “Emerge piuttosto fra i curdi di Baghdad, o della Svezia”. E le notizie sugli omosessuali scaraventati giù dai tetti dagli scherani del Califfato? “Orrore, come tutto quello che fanno”.
Un peshmerga a Makhmour, 50 chilometri da Erbil (foto LaPresse)
Ali studiava all’Accademia fiorentina quando io ci insegnavo; gli chiedo come vadano le cose all’Accademia di Erbil con la scuola del nudo. Non esiste, dice, del resto non è mai esistita in Iraq. C’era nell’Egitto di Faruk o nell’Iran dello scià. (Però, aggiunge, abbiamo riso tanto delle statue coperte per il passaggio dei notabili iraniani a Roma…). Succedono cose imbarazzanti e comiche. Si interpella una ragazza francese per far da modella al disegno dal vero, e lei chiede: “Nuda, naturalmente?” L’anno scorso alcuni studenti hanno copiato due donne di Lucien Freud, sollevando qualche malcontento. Ora un allievo ha presentato uno schizzo che Ali mi mostra: al centro c’è una giovane donna nuda su un piedistallo, come una Venere botticelliana, ai lati gli uomini neri del Califfato brandiscono kalashnikov coltelli e mazzi di dollari per aggiudicarsi l’asta. Chissà se riuscirà a dipingerlo.
Un mercato dell’arte non esiste, i nuovi ricchi hanno vecchie abitudini di tribù, caso mai fanno donazioni alle tremila moschee. C’è un singolare contrasto, dico, fra la convinzione universale, per lo più rassegnata, che nel potere abbondi la corruzione, e l’onestà rigorosa degli affari quotidiani: i soldi sono ammucchiati senza protezione nei banchetti per strada e cambiati senza tentativi di imbrogli, nell’infinito bazar nessuno ti chiama a comprare, tirare sui prezzi è più un piacere che una vera intenzione… “Lo Stato è debole, la società è forte. Voi direste che c’è un doppio Stato: il bazar ha le sue leggi. Guarda: alla preghiera delle 12 lasciano tutto com’è, la mercanzia esposta, al massimo tirano una tendina. Quando c’è un guaio più grosso da dirimere, vanno alla moschea. Ci sono anche dei fanatismi nuovi, portati dall’Arabia Saudita. L’altro giorno, a un pranzo di lutto, quando il figlio del defunto ha portato il tè uno ha protestato che era peccato, che stava dissipando i soldi destinati agli orfani”.
In questo Kurdistan l’Isis è sempre a un tiro di schioppo, per così dire, ma le operazioni sul versante curdo sembrano sospese. Si aspetta per definizione la controffensiva su Mosul. Sul fronte sud, restava da liberare Bashir, un grosso villaggio a maggioranza turcomanna importante per la sua posizione. I peshmerga di Suleymaniah e Kirkuk, ripresi i villaggi a sud di Kirkuk e Daqok, rinunciarono per non trovarsi addosso alle famigerate milizie sciite irachene di Hashd al Shaabi. La cui battaglia per Bashir si è trascinata per mesi, finché lunedì i miliziani sciiti hanno mosso un attacco in forze, sono penetrati a fondo nel villaggio e sono finiti in un’imboscata dell’Isis. Si sono ritirati al costo di una quindicina di morti, una ventina di dispersi e un centinaio di feriti: una rotta. Nello stesso giorno l’esercito iracheno vantava la riconquista di Hit nella provincia occidentale di Anbar, sull’Eufrate, in mano all’Isis dall’ottobre 2014. E l’Isis a sua volta riconquistava la città di Rai, al confine fra Siria e Turchia, ennesima “posizione chiave” che avevano ceduto pochi giorni prima all’Esercito libero siriano appoggiato dai bombardamenti americani e turchi. Il notiziario dai fronti con il Califfato è tutt’altro che univoco.
Un rifugiato iracheno a Khazair, nel campo profughi tra Mosul ed Erbil (foto LaPresse)
Lokman e Ali sono amici da una vita, ma solo stasera scoprono una coincidenza drammatica e romanzesca. Lo spunto è il ricordo di Ali: per noi da piccoli gli ebrei erano Satana, dice, e quando a Firenze incontrammo una prima persona ebrea in carne e ossa, una studentessa che si chiamava Melka, ne avemmo tutti una gran paura. Poi arrivò anche una Debora, era un’ebrea canadese, di sinistra, stava con un palestinese, e tutto il fantasma svanì. Racconta ancora Ali: “Nel ’69 ero nella piazza Tahrir a Baghdad quando hanno impiccato come agenti del Mossad nove ebrei. Erano ricchi commercianti, a quell’epoca buona parte dell’economia di Baghdad era in mano degli ebrei e dei Fayli, i discriminati curdi sciiti di origine iraniana. Quell’impiccagione pubblica fu come l’incendio del Reichstag per la carriera di Saddam. La sua famiglia era venuta da Tikrit e si impadroniva ferocemente di tutte le ricchezze pubbliche e i patrimoni privati. Non vidi le facce degli impiccati perché erano incappucciati”. Lokman ha ascoltato con emozione: “C’ero anch’io. Ci portarono lì, tutta la scuola, io ero in terza elementare. Un giorno, tanti anni dopo, nel 1986, ad Amsterdam, in un locale del centro che vendeva panini e kebab, mi colpisce il modo di parlare del proprietario: era il figlio di uno degli impiccati, un grosso importatore di carbone da Karachi. Ci siamo raccontati le cose, mi ha offerto il pranzo”. Saddam era il figlio illegittimo del comunismo e del nazismo, come Daesh è il figlio illegittimo dell’Arabia Saudita e della Turchia, dice Ali. “Eravamo sicuri che Saddam sarebbe finito: il problema era quando. A un certo punto ne ebbi abbastanza, e decisi che doveva aspettare lui, non io. Provavo a convincere gli altri curdi. Deve soffrire lui, non noi”.
Il vero ostacolo, dicono, è Erdogan. Dopo i militari la Turchia sembrava diventata un modello laico, ma è precipitata presto, e l’Europa non ha fatto niente per trattenerla. Ora è tornato lo scontro dei tre imperi, arabo, persiano e turco.
Tuttavia le cose cambiano, dicono. Cambiano, ma anche in peggio, osserva Lokman: è come se l’offensiva jihadista costringesse a ripiegare omeopaticamente su una dose di restaurazione religiosa. A volte le cose sembrano cambiare, dice ridendo Ali. “Un giorno ero con Lokman a un incrocio e vediamo arrivare di corsa un tipo con la tuta Adidas e le scarpe Nike, un prototipo di disinvolto jogger curdo. Solo che quando ci è sfilato davanti abbiamo visto che aveva un tappetino sotto il braccio: era in ritardo per la preghiera!”.