Trump si reinventa moderato per saggiare la consistenza degli avversari
New York. Scott Walker era in macchina quando gli hanno riferito dell’ultima uscita di Donald Trump. Sulle prime si è fatto una risata. Poi la risata s’è trasformata in una maschera di inquieto, scioccato stupore. A fine giornata era nauseato. In un’intervista a Usa Today Trump ha detto che il governatore del Wisconsin potrebbe finire in una lista di candidati per il posto di vicepresidente: “Ci sono molti aspetti di Walker che mi piacciono. L’ho attaccato alla grande, ma mi è sempre piaciuto”, ha detto Trump alla columnist Kirsten Powers, dopo che un paio di settimane fa il candidato repubblicano andava in giro per il Wisconsin a ridicolizzare il governatore che aveva dato il suo endorsement a Ted Cruz: “Non sta facendo un grande lavoro, ma vi ha convinti che lo stato non ha alcun problema”, un modo piuttosto singolare per descrivere un politico che gli è sempre piaciuto. Oltre a essere l’opposto stilistico di Trump, Walker ne è anche l’opposto politico. In Wisconsin ha dato battaglia ai sindacati e ha calato l’accetta sulla spesa pubblica, punti che non sono nell’agenda di un “artista del deal” che promette protezione alla working class strapazzata da un mondo che cambia.
Trump ha detto che gli piace pure John Kasich, il partner minore di questa corsa repubblicana a tre, il quale incarna tutta la moderazione che il frontrunner disdegna. Se è vero che per mesi gli osservatori hanno speculato su un’alleanza sottobanco fra Kasich e Trump – l’unico modo logico che il governatore dell’Ohio avrebbe per far fruttare una campagna altrimenti destinata esclusivamente a danneggiare Cruz – altrettanto vero è che il terzo incomodo ha accolto l’apertura trumpiana con due parole soltanto: “Zero chance”. Infine, balbettando senza troppi imbarazzi qualche “yeah, I could”, Trump non ha nemmeno escluso la possibilità di coinvolgere in un’eventuale ticket Marco Rubio, altrimenti detto “Little Marco”, l’avversario con cui Trump ha disquisito, fuor di metafora, intorno alle dimensioni dei rispettivi attributi maschili. Settimane di nomignoli umilianti, colpi bassi, insulti, cattiverie offerte direttamente o triangolando con avversari compiacenti sono state cancellate da un “I like Marco Rubio”. Il senatore della Florida si è giusto “trasformato in Don Rickels per quattro giorni, e io sono diventato peggio di Don Rickels”: è stato un momento comico, ma ora è tutto ricomposto, quella che a tutto il mondo è apparsa come una lotta nel fango fra concezioni e stili antitetici non era niente di più di un grosso e crasso sfottò a sfondo politico. Nella logica sghemba di Trump questo piroettare non è strano, è solo un ballon d’essai per saggiare la reazioni a un candidato che gioca goffamente nel ruolo di contendente incravattato e presidenziale.
L’ultimo trend della campagna è ritwittare quelli che sottolineano quanto è serio, posato e credibile il frontrunner quando concede interviste su temi complessi e quando si muove fuori dalla comfort zone offerta dal suo popolo urlante. Sono i primi effetti di una nuova infornata di consiglieri, capitanata da Paul Manafort, ex lobbista assoldato da Trump per mettere a punto una strategia di gestione della convention che il partito repubblicano vorrebbe “brokered”, aperta, senza un chiaro vincitore che alla prima votazione fra i delegati si assicura la nomination. Questo è il momento dei conteggi e delle mediazioni, non dei muri (a parte quello al confine con il Messico). In questa nuova fase della partita, un momento esplorativo per capire l’effettiva durezza del fronte Never Trump, il candidato non ha citato Paul Ryan, lo speaker della Camera che fra discorsi, spot paraelettorali, slogan, viaggi e strette di mano trasversali è sembrato ingaggiato in qualcosa di più di una campagna di policy a beneficio di un aperto e onesto confronto di idee all’interno del panorama conservatore. Ieri Ryan, che si è sempre dichiarato estraneo a ogni interesse per la corsa, ha implicitamente ammesso che una certa ambiguità sussisteva nella sua condotta e ha convocato una conferenza stampa per escludersi in modo definitivo dalla corsa per la Casa Bianca. “Ryan può andare d’accordo con me, oppure pagherà un prezzo enorme”, aveva detto Trump quando, in concomitanza con il Super Tuesday di oltre un mese fa, gli occhi dell’establishment avevano preso a guardare Ryan come possibile alternativa. Forse oggi dirà che a lui Ryan è sempre piaciuto.
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