A colazione da Macron
Parigi. “Blocage”, blocco, è il termine più utilizzato in Francia, lo ripetono tutti, giornalisti, politici, commentatori, funzionari, studenti, sindacati. Lo dicono i nottambuli di Nuit Debout che fanno base a Place de la République e lo dicono molti nella “fortezza”, come viene chiamato il ministero dell’Economia francese. Come sbloccare il paese? E’ in questa risposta che le divisioni sono grandi, inconciliabili, e il senso di tensione permanente diventa palpabile. Emmanuel Macron, inquilino della fortezza, ha lanciato una settimana fa En Marche!, un’iniziativa “né di destra né di sinistra” che vuole togliere i blocchi. “E’ un movimento politico – dice il ministro dell’Economia durante un incontro con un piccolo gruppo di giornalisti, una colazione a Bercy con pain au chocolat e vista Senna – ma non escludo che possa presentare dei candidati, anche se non è questo l’obiettivo immediato”. L’iniziativa “porta a porta”, che contatterà 100 mila famiglie in tutta la Francia in un’azione di coinvolgimento e di inclusione liberale, potrebbe diventare qualcosa di più grande, di molto più grande. Mr Hollande stai sereno, insomma.
Il Partito socialista e tutto quel mondo di sinistra che sogna più un Podemos francese che un altro Tony Blair, più giovane e più biondo, sono infastiditi. En marche! ha un iscritto ogni trenta secondi, più di tredicimila sostenitori in una settimana, “oggi il mio approccio è di rifondare un’esperienza diversa dell’impegno politico”, dice Macron, una rifondazione che è una rottura, lo sgarbo definitivo, dopo tanti mesi di piccole e continue incomprensioni. Il ministro dell’Economia, giovane ed energico, non nega un sorriso a nessuno ma ha lo sguardo determinato di uno che andrà fino in fondo. Non ha messo in piedi una sperimentazione fine a se stessa, né ha tentato un azzardo sull’onda di una certa popolarità nei sondaggi, come dicono molti dei suoi detrattori.
La pericolosità di Macron è apparsa concreta e lampante ieri mattina, guardando la prima pagina di Libération, quotidiano antipatizzante nei confronti del ministro che in questi mesi ha raccontato più il suo ego smisurato che i suoi progetti. C’era una lunga intervista al primo ministro, Manuel Valls, intitolata così: “Da trent’anni mi domando se sono di sinistra”. Tutt’a un tratto, Valls si trova a rincorrere il suo ministro più giovane e infinitamente meno diplomatico e a doversi riposizionare, lui che era entrato nel governo (e aveva poi nominato lo stesso Macron) come il rappresentante quasi monopolista del riformismo francese. Era Valls che per primo aveva detto che “socialista” è di troppo nel nome del Ps, era Valls che si era posizionato, a livello europeo, assieme agli innovatori, era lui il “candidato del rinnovamento”, forse lo sfidante principale dell’indebolito presidente della Repubblica, François Hollande. Anzi, nelle ultime settimane i retroscenisti si sono divertiti – soprattutto sull’Obs, magazine di sinistra – a raccontare le faide e le tattiche tra il premier e il presidente, ipotizzando che anzi Macron sia uno strumento di Hollande, una pedina per neutralizzare Valls. Almeno per adesso. Non si sa quanto sia lungimirante per il presidente affidarsi a un ministro che ha un istinto da leader tanto spiccato, ma intanto quel che è certo è: anche Mr Valls stai sereno.
Quando Macron dice che vuole “far arrivare nuovi talenti in politica”, fa un passo ulteriore rispetto al premier riformatore. Si pone come una forza d’attrazione, che parla a tutti. Una calamita liberale.
Il ministro dell'Economia francese Emmanuel Macron visita Expo Milano 2015
In questo momento i poli d’attrazione in Francia sono importanti. Non si fa che parlare di quello che più terrorizza, che è ovviamente il Front national – non c’è conversazione qui a Parigi che non citi il 2002, quando il candidato presidenziale della sinistra Lionel Jospin non raggiunse il secondo turno, e per fermare Jean-Marie Le Pen l’elettorato della gauche dovette votare in massa per l’odiato Jacques Chirac. Oggi il Front si pone come un catalizzatore del voto anti sistema, ma dalle parti di En marche! sono convinti che un partito che c’è da decenni e che si passa il potere di padre in figlia (e in nipote) non possa essere considerato anti sistema, soprattutto se rappresenta il conservatorismo più estremo: l’immobilismo. Se si riuscisse ad attirare quel voto, a far capire che, come ha detto più volte in questa ultima settimana Macron, la sfida è “tra progressismo e conservatorismo”, e il progressismo è il miglior antidoto allo status quo, allora l’iniziativa En Marche! avrebbe ottenuto un risultato straordinario che il Partito socialista non cerca nemmeno (per il Ps il Front national va ostracizzato e basta).
Lo sblocco della Francia parte dal superamento della divisione tra sinistra e destra. Peccato che il Ps veda nella creazione di En Marche! un segnale di divisione che può risultare fatale. La disunione che favorisce il nemico. Oggi la popolarità del presidente Hollande è molto bassa, non si schioda dal 20 per cento, semmai va più giù. Da qualche giorno c’è un sondaggio citato in ogni conversazione, dibattito, battuta sulla politica francese: è stato organizzato da Ifop per il Journal du Dimanche nei due giorni successivi all’annuncio del nuovo movimento di Macron, e dice che l’80 per cento degli intervistati si augura che Hollande non si candidi alle presidenziali del 2017. Ma il 67 per cento pensa che, nonostante i segnali inequivocabili, lo farà lo stesso, e così le primarie, che saranno organizzate alla fine di quest’anno, rischiano di diventare uno spettacolo di cannibalismo en plain air. Se per Harlem Désir, sottosegretario agli Affari esteri ed ex segretario dei socialisti, Hollande “è il candidato naturale”, e ogni scarto di lato, “né di destra né di sinistra”, è da evitare, le aspettative nei confronti del presidente in carica sono invero basse. E Macron vorrebbe Hollande candidato? In questi giorni, il ministro ha tentato in tutti i modi di non rispondere alla domanda, durante l’incontro dice che “questo non è il momento delle candidature, ma quello dei dibattiti”. Non vuole che vengano messe a tacere le diverse anime che animano il governo, non vuole che la minaccia di una vittoria del Front national diventi un motivo per metterlo a tacere. “La sinistra non deve rinchiudersi in una forma di intimidazione collettiva – dice Macron – che consiste nel dire che alcuni dibattiti sono vietati in nome del tutti uniti contro il Front national”. Vuole parlare, Macron, vuole discutere, vuole prendere la parola e capire che seguito può avere. Dicono che ci sono già alcuni leader locali, come il governatore dell’Aquitania e il sindaco di Lione che stanno con il ministro, più un gruppo di deputati e finanziatori che sostiene En Marche!, che è come dire che ci si sta contando per vedere dove si può arrivare.
Questa sera, il presidente Hollande si concederà in televisione per novanta minuti. Obiettivo: riconquistare l’attenzione del pubblico francese. Nelle ultime settimane i media si sono riempiti di retroscena in cui si raccontava l’organizzazione di Hollande in vista dello scontro elettorale. Con estremo anticipo, visto che si vota tra più di un anno, ma si sa che la Francia è in campagna permanente – e ormai si può dire la stessa cosa di molti paesi europei. I novanta minuti che questa sera il presidente passerà in televisione per spiegare il suo operato e per rilanciarsi come leader di una nazione in affanno e preoccupata – molte conversazioni parigine hanno fatto emergere un senso di precarietà mesto e incurabile – sono pensati per mettere a tacere il chiacchiericcio attorno alla performance poco eclatante di Hollande. E’ un suo grande classico: vado in tv, definisco io i temi di cui parlare e metto a tacere il resto (memorabile fu la conferenza stampa organizzata poco dopo le rilevazioni sul suo affaire con un’attrice e il collasso della compagna Valérie: lui parlava del potere della socialdemocrazia, tutti volevano soltanto chiedere quante volte fosse andato in scooter a casa della sua amante a portarle le brioche, e se Valérie l’avesse menato). Non si sa se il presidente otterrà l’effetto sperato, ma certo cercherà di prendere un po’ di tempo.
Mentre il presidente parla questa sera, Macron sarà a Londra a una cena di fundraising con “gli amici banchieri”, come ribadiscono i suoi detrattori. Un banchiere. Quel che per il resto del mondo à gauche è un punto a sfavore quasi insormontabile, è secondo Macron la sua forza. La politica per il ministro non è una professione ma è un impegno, non è un mestiere, ma una funzione, una missione. Macron non è membro di nessun partito e vuole scardinare un sistema partitico rigido, con un progetto che si fonda sulla mobilitazione. I politologi sostengono che sia un’ambizione impraticabile: in Francia la vita politica è scandita dai partiti, non si può sfuggire da questa logica, e provare a farlo è anzi un misto di irresponsabilità e di ingenuità. Per Macron invece è una prova di forza, che ha a che fare con una visione più ampia della politica, in cui la libertà viene prima della giustizia sociale, in cui la libertà viene anche prima dell’ordine e del controllo. E’ per questo che ambisce a parlare a tutti, a destra e a sinistra. En marche! mette insieme modernità e liberalismo: vive sulla rete e sui social media, con un sito che non puoi esplorare se non finendo sempre nell’area “marcia con noi”, e la sua sede è dentro all’Institut Montaigne, think tank liberale che produce studi su come togliere quei “blocchi” che sono la molla che ha convinto Macron a fare il grande salto. Tra rete sociale e centro studi, il ministro riesce a collocarsi ancora nel cosiddetto “dibattito delle idee”, una riserva in cui può in qualche modo proteggersi dall’eventuale fallimento. Intanto lui vuole fare un bilancio del paese, mettersi in marcia, attirare talenti, discutere e infine proporre.
François Hollande con Manuel Valls ed Emmanuel Macron (foto LaPresse)
Nel dibattito la questione più importante è la riforma del lavoro. Le liberalizzazioni tanto volute dal ministro dell’Economia – la loi Macron – in realtà non sono state così ampie e profonde come lui avrebbe voluto: lo spirito poco coraggioso del presidente Hollande unito a una impermeabilità quasi totale della Francia ai cambiamenti hanno inciso sull’esito del negoziato parlamentare. Se si aggiunge che il gruppo del Ps all’Assemblea nazionale è molto diviso, oltre che infastidito da quel ministro “che non è mai stato eletto a niente”, e che ora senza alcuna rappresentanza vuole fare il grillo parlante del progressismo, è chiaro che la tenuta di Macron è in bilico. Con la riforma del lavoro, la questione è più o meno simile. Il progetto è già stato annacquato dall’indecisione di Hollande e dalla minaccia della piazza di studenti e sindacati. Per il ministro la tensione esiste ed è chiara, l’unione tra studenti e sindacati ha già ottenuto grandi risultati (di immobilismo) in passato, e anche se la partecipazione è in calo, la riforma è già molto meno ambiziosa, per quanto comunque utile. Nuit Debout, con le sue commissioni e l’assenza di rivendicazioni esplicite, preoccupa un po’ di meno, è un segnale, certo, ma non molto forte: c’è poca gente, sembra più un pretesto per godersi l’arrivo della primavera all’aria aperta. L’esecutivo però, soprattutto Valls, negozia con le parti – su mandato esplicito di Hollande, re della cautela – e così in piazza sono rimasti i più tosti, quelli che fin dal primo giorno dicono: non ce ne andremo finché la riforma non sarà completamente ritirata.
La discussione sul rigidissimo mercato del lavoro francese ha contribuito ad approfondire i solchi che già attraversano il Partito socialista. Non è una questione esclusivamente francese, in realtà: tutte le sinistre del mondo si tormentano da anni sul grado di liberalità necessario per mantenere consenso e riuscire a governare un paese. Dev’essere per questo che, come ha scritto l’Economist, la sinistra in Europa è molto in crisi, anzi è quasi morta, se si fa eccezione per il premier italiano, Matteo Renzi, e per Macron, appunto (il ministro francese è spesso paragonato al premier italiano, anche se l’entourage di Renzi ha più volte sottolineato che c’è una grande differenza: Macron non è stato eletto mai a niente, il governo Renzi ha preso il 40 per cento alle europee).
Nella decisione di Macron è implicito un messaggio ai suoi datori di lavoro e alle sinistre che non vogliono rinnovarsi, un messaggio che è stato accolto con un sorriso gelido nei pochi e migliori dei casi e con un certo disprezzo in tutti gli altri. Sull’appartenenza di Macron al Partito socialista c’erano dubbi da molte parti e da molto tempo: si definisce progressista in contrapposizione al conservatorismo, perché vuole cambiare e non conservare, ma questa è la cosa più di sinistra che riesce a dire. Per il resto si sente post tutto, post partitismo classico, post socialismo tradizionale, dall’alto dei suoi pochissimi anni – trentotto – e della sua minima inclinazione al compromesso. Soprattutto si sente post Hollande, anche se non lo ammetterà mai, anche se continua a dire che stima tantissimo il presidente della Repubblica francese, che En Marche! non è un dispetto, è un’idea di mobilitazione porta a porta, una marcia nazionale verso il liberalismo (tra i socialisti si sprecano le battute e l’ironia a denti stretti, l’insofferenza è totale). Macron ha detto in televisione domenica sera anche un’altra cosa. Sostiene di avere “una regola nella vita: la benevolenza. Per esistere non ho bisogno di dire male degli altri”, ma questo buonismo non descrive affatto allo sguardo del ministro, diretto e fermo, che lo fa sembrare pronto a tutto, soprattutto a fare quello per cui la politica francese è tanto celebre, quello per cui la politica francese è tanto affascinante. Tradire.