Lezioni inglesi per la stampa italiana contro lo sputtanemento
Milano. “E’ meraviglioso che i sostenitori di un controllo della stampa da parte del governo ora pretendano che i giornali rivelino la vita privata di un politico”, dice al Times un professore della London School of Economics, “quanto è difficile definire che cosa s’intende per ‘pubblico interesse’”. Da quando qualche giorno fa è scoppiato lo scandalo del ministro della Cultura inglese, John Whittingdale, e della sua ex innamorata-escort, non si fa che parlare di pettegolezzi, minacce presunte, torbidi patti. Perché pur sapendo da tempo che il ministro aveva avuto una storia con una prostituta i media non hanno pubblicato la notizia? C’è stato uno scambio di favori?
Le teorie del complotto s’ammonticchiano, mentre quella stampa rea di non aver raccontato gli affari privati di un uomo divorziato e single con l’unica colpa di essersi illuso di un amore impossibile (dice di non essere stato a conoscenza del mestiere della ragazza, gliel’ha detto un giornalista, per l’appunto) si diverte sullo scandalo ormai pubblico, con le foto della ex del ministro in tenuta da lavoro, stile Charlotte Rampling ne “Il portiere di notte”, con scritte tipo “Yes, yes, yes minister”. La pietà non è roba da stampa inglese, insomma, ma i giornali “incriminati”, The People, The Mail on Sunday, The Sun e The Independent on Sunday, hanno spiegato di aver avuto la notizia, di averla investigata e di essere giunti alla conclusione che non avesse alcuna rilevanza in termini di pubblico interesse. Sarebbe stato un semplice, inutile sputtanamento, una storia di ingenuità con la frusta finita prima che Whittingdale entrasse nel governo, e hanno lasciato stare. Ma per gruppi come Hacked Off, che dai tempi dello scandalo delle intercettazioni del 2013 fanno campagna per una maggiore regolamentazione della stampa, cioè sono gli indignati dell’intrusione mediatica nella vita degli altri, ora dicono: “La stampa aveva l’obbligo di scrivere su Whittingdale e non sono stati motivi legali o etici a bloccarla”. L’obbligo, il complotto.
Laura Kuenssberg, editor della sezione politica della Bbc, emittente con cui il governo ha avuto e ha più che una disputa, dice: “Come abbiamo fatto a ritrovarci in questa strana situazione in cui i sostenitori della privacy che hanno fatto campagna per regole più restrittive imbracciano le armi perché la vita privata di un singolo ministro non è stata raccontata dai media?”. Lo sapevano tutti a Westminster che c’era un ministro invischiato in un affaire con una dominatrix. Se ne chiacchierava da sempre, con battute anche poco piacevoli, che nei migliori dei casi facevano riferimento a “Pretty woman”, e nei peggiori sono irriferibili (non è un caso che oggi il ministro dica di essersi sentito parecchio “in imbarazzo”). Ma che il pubblico inglese avesse il diritto di sapere questa storia è tutta un’altra faccenda.
Al punto che tabloid impietosi hanno pensato che il pubblico interesse fosse un altro, che minare la reputazione di un ministro in modo del tutto gratuito – non c’è colpa, non c’è nemmeno una moglie tradita, non c’è nulla – non fosse un’operazione poi così necessaria. La stampa libera a volte è meglio dei suoi detrattori, dei complottardi, di chi pensa che affari privati irrilevanti possano salvare la nomea dei giornalisti, persino i loro stipendi. Come ha detto all’inizio del mese Alan Moses, presidente della Press Standards Organisation, “abbiamo bisogno di giornalismo editato, rivisto, non di una flatulenza senza revisioni da troll online”.